mercoledì 26 ottobre 2016

COMBINATI DISPOSTI E CIRCOLI VIRTUOSI/VIZIOSI

Ormai dovrebbe essere lampante anche per un ragazzino. Le poste in paio al Referendum sono due e intrecciate nell'ormai proverbiale formula del combinato disposto: da un lato l'OK alla riforma costituzionale e dall'altro il futuro del premier/segretario, accomunati dallo stesso destino in relazione all'esito del voto. D'altra parte era comprensibile la tentazione di rilegittimare il governo tramite il voto referendario, dopo due anni di martellante campagna propagandistica delle opposizioni contro il governo illegittimo, sostenuto da un parlamento frutto di una legge anticostituzionale, con un premier mai eletto dal popolo e mai legittimato dal consenso popolare.

Per onestà intellettuale si dovrebbe riconoscere che l'improvvida idea di personalizzare il referendum, a cui il premier non ha saputo resistere per spavalderia, ha fatto il gioco dei suoi oppositori più accaniti, dentro e fuori il PD, trasformando di fatto il voto del 4 dicembre in una sorta di plebiscito nei confronti suoi e del governo. La personalizzazione, decisa sull'onda del 40% delle europee, si è rivelata controproducente dopo i ballottaggi delle comunali di giugno, per il combinato disposto di:
  • lo spostamento degli elettori di centrodestra sui pentastellati, in alcuni comuni chiave, come prova generale per l'aggregazione informale del fronte del NO anti-renziano, a prescindere dai contenuti della riforma costituzionale;
  • l'indebolimento del segretario/premier, che ha rinfocolato le speranze della minoranza interna di sbarazzarsi definitivamente dell'usurpatore, affiancandosi di fatto al fronte del NO anti-renziano per la defenestrazione.
L'abbinamento tra bocciatura della riforma e del governo è la madre di tutti i successivi combinati disposti, che inquinano distorcono la campagna referendaria, come la strumentale critica bersaniana al combinato disposto tra Italicum e riforma costituzionale. 

Seppur tardivamente Renzi ha riconosciuto l'errore e ha fatto retromarcia, ma la frittata era fatta e i suoi oppositori si erano ormai tacitamente saldati nell'ampio fronte anti-renziano grazie al collante del NO alla riforma costituzionale; ora però l'endorsement del PSE, abbastanza scontato, ma soprattutto quello ad personam e plateale di Obama, durante la visita negli USA, non ha fatto altro che rincarare la dose della personalizzazione referendaria e rinfocolare lo spirito anti-renziano a prescindere del NO, anche per l'insistente campagna mediatica nel segno dell'esposizione personale e l'uso indiretto della finanziaria per lisciare il pelo agli elettori referendari (altro discutibile combinato disposto). Se poi il 4 dicembre le cose dovessero mettersi male - come non mi auguro per il bene dell'Italia e del PD - i combinati disposti verranno al pettine e decreteranno il capolinea per il premier/segretario per il significato anti-renziano e anti-governativo, dentro e fuori il PD, del voto referendario. Molto dipenderà dai numeri per il Si e per il NO, ma di fronte ad una sonora bocciatura il destino del governo sarà segnato, che piaccia o meno ad Obama.

Peraltro, a ben vedere, il primo combinato disposto è quello tra segretario PD e Presidente del consiglio. In tempi di vaccine elettorali sovrappeso il cortocircuito tra i due ruoli era all'insegna del feed-back positivo, ovvero dell'ampliamento del consenso per entrambi i lati del combinato disposto. Ma quando i bovini elettorali dimagriscono il rischio è che la spirale di amplificazione della deviazione si ribalti, ovvero che il circolo virtuoso si converta in circolo vizioso, per cui l'altolà referendario si potrebbe riverberare su governo e partito. In questi frangenti rischiosi si rivaluta il monito, lanciato a suo tempo da Barca e rimasto inascoltato nell'euforia dell'onda elettorale europea, a separare le due funzioni, proprio per evitare pericolosi cortocircuiti negativi, che la distinzione tra le due cariche avrebbero prevenuto. 

mercoledì 19 ottobre 2016

Lo strano caso della Rifoma Costituzionale e i tempi di approvazione delle leggi

Allora, proviamo a ricapitolare la querelle sui tempi di approvazione delle leggi e il superamento del bicameralismo paritario, perché è davvero curiosa e sintomatica di un dibattito politico che si è incartato su se stesso.
1-I pasdaran del NO, dati alla mano, dicono che quando si vuole le leggi passano in men che non si dica, magari forzando la mano al parlamento con un voto di fiducia ritenuto illegittimo dagli oppositori ad oltranza; ergo la riforma costituzionale che promette di velocizzare l'iter legislativo è un bluff e non migliorerà la situazione attuale.
2-Per confutare questa critica basterebbe portare ad esempio alcune delle numerose leggi in coda per il decollo per via dell'estenuante andirivieni tra Camera e Senato; i casi più emblematici sono quelli della riforma della giustizia (2 anni e passa di attesa) e sulla cittadinanza ai figli di extracomunitari nati in Italia (1 anno e passa), senza contare altre leggi approvate nell'ultimo anno, come l'omicidio stradale, l'anti-caporalato o l'Italicum, talvolta solo grazie all'imposizione della fiducia, ovviamente oggetto di aspre critiche da parte dell'opposizione.
3-I pasdaran del SI però non ci farebbero una gran bella figura, perché in molti casi ad impedirne l'approvazione di una legge non è stata l'agguerrita opposizione ma l'auto-ostruzionismo della maggioranza, cioè quello “occulto” ed interno di alcuni gruppetti di sabotatori della riforma, come nel caso tipico della riforma della prescrizione, dove il governo si guarda bene dal porre la fiducia contro gli auto-ostruzionisti per il rischio di una clamorosa bocciatura.
4-Se dovesse prevalere il SI al Referendum i primi ad essere danneggiati sarebbero proprio gli ostruzionisti di maggioranza che, in pratica, decreterebbero il loro declino di strenui oppositori interni alle leggi loro sgradite. Perderebbero insomma una formidabile arma di condizionamento e, del caso, di boicottaggio del cambiamento.
5-Se invece passasse il NO avrebbero sempre buon gioco in futuro gli ostruzionisti di minoranza, salvo gridare allo scandalo qualora il governo dovesse imporre fiducia, canguri o ghigliottine per superare l'uno o l'altro ostruzionismo.
Morale: quando NON si vuole che passi una legge il bicameralismo paritario è davvero perfetto e si rivela un grande alleato di tutti gli insabbiatori del cambiamento, interni ed esterni alla maggioranza di governo, come le lobby alla costante ricerca di pretesti e strumenti per mettere bastoni tra le ruote ad una legge sgradita o sfavorevole ai propri interessi o privilegi occulti.

sabato 15 ottobre 2016

Italicum, tutti assieme apassionatamente contro il ballottaggio

Continua incessante il lavoro del generatore romano di revisioni della legge elettorale vigente, 
il portentoso calcolatore elettronico che sforna a profusione progetti di riforma della riforma. 
Dietro risibili motivazioni di facciata (tipo il rischio che governi una forza politica che ha avuto 
al primo turno il 25% dei voti, come è accaduto al PD grazie al risultato elettorale del primo 
turno alle elezioni del 2013) si cela il primo obiettivo, occulto e quindi inconfessabile, di tutte 
le proposte di modifica dell'Italicum: sbarrare la strada con ogni mezzo e costi quel che costi 
al M5S, confezionando una legge ad hoc che rappresenti a priori un handicap per i pentastellati 
e un vantaggio per i suoi promotori. 

Le proposte fino ad ora avanzate, in forma di propositi generici o di veri progetti di legge 
depositati in parlamento, sono 4 e si caratterizzano per il fatto di raggiungere l'obiettivo 
di cui sopra in modo più o meno esplicito o indiretto. Lo strumento che consente più 
agevolmente di raggiungere l'obiettivo è l'eliminazione del ballottaggio, a cui si dedicano 
la prima categoria di revisioni dell'Italicum, mentre le altre due adottano soluzioni intermedie
 e in forma di restyling della legge vigente. Vediamole schematicamente

1.Al primo gruppo appartengono le proposte di legge che tagliano la testa al toro ed eliminano 
senza troppi complimenti l'ipotesi stessa di un confronto diretto tra PD e M5S al ballottaggio. 
Non ci vuole un grande sforzo per immaginare che eliminando il ballottaggio si risolve alla radice
il problema, anche a costo di produrre un risultato elettorale all'insegna dell'ingovernabilità e
dell'incertezza politica. Il caso della Spagna è emblematico e costituisce un formidabile precedente, 
tanto da essere preso ad esempio dalle riforme della riforma prodotte nelle ultime settimane 
dal portentoso generatore. La vicenda Spagnola è un modello di sistema tripolare paralizzato 
in cui però la principale forza anti sistema, ovvero Podemos, è stata messo in condizioni di non 
nuocere grazie al suo isolamento proporzionale. Sia il Mattarelum 2.0 dei bersaniani - con il 
revival dei collegi uninominali più il premio di (in)governabilità - che l'Italikos proposto dai giovani 
turchi - eliminazione del ballottaggio dall'Italicum più un analogo premietto di minoranza al 
primo classificato di 90 seggi – raggiungono il medesimo obiettivo di evitare il confronto diretto
 con i pentastellati al secondo turno.  

2-L'ultimo parto del generatore romano ha come padre putativo il sen. Chiti, che ha escogitato 
un espediente originale per impedire il ballottaggio M5S contro PD: l'idea è di introdurre un inedito 
secondo turno a tre che danneggerebbe in partenza ed elettivamente i pentastellati in quanto 
indisponibili a qualsiasi alleanze; al contrario sarebbero avvantaggiati gli altri due poli disponibili 
a trovare alleati tra primo turno e ballottaggio. L'esito del ballottaggio sarebbe la fotocopia del 
primo turno, ma con possibili piccole variazioni percentuali in più, che potrebbero decretare la 
vittoria del PD (alleanza con SI e in alternativa con i centristi) oppure del centrodestra unito ed 
alleato con i centristi, in veste di novello figliol prodigo di ritorno alla casa madre.

3- Alla terza categoria appartengono le proposte soft di restyling dell'Italicum, cioè il premio di 
maggioranza alla coalizione invece che alla lista, oppure la possibilità di apparentamento tra primo 
e secondo turno, come accade nell'elezione diretta del sindaco nei comuni con popolazione superiore
 a 15000 abitanti. La prima ipotesi è certamente preferibile per la chiarezza della proposta politica-
programmatica, mentre la seconda si presterebbe al gioco del ricatto o del mercateggiamento dei 
posti di potere da parte delle piccole forze politiche, à la Ghino di Tacco o secondo la teoria dei 
due forni. Con l'apparentamento al II° turno le forze minori avrebbero l'occasione per lucrare sulla 
gestione dell'incertezza del loro appoggio e del loro potere di decretare la vittoria dell'una o dell'altra parte.  

Insomma il M5S è l'ossessione elettorale di alcune correnti del PD, alla ricerca spasmodica della 
formula magica, dopo il ribaltone al ballottaggio a Torino confermato dai successivi sondaggi elettorali, 
per una legge ad hoc che penalizzi il più possibile i grillini; non importa se questo obiettivo si potrebbe
rivelare un'operazione ad alto rischio. I pentastellati avranno buon gioco ad accusare il sistema dei 
partiti di opportunismo e slealtà per la manipolazione delle regole del gioco mentre si sta giocando. 
Questo risvolto propagandistico autolesionista interessa poco agli strateghi elettorali che fanno 
grande affidamento sull'efficacia del generatore di leggi elettorali. Ma gli italiani non sono dei polli e 
sanno riconoscere chi è propenso a barare invece che giocare lealmente. 

sabato 8 ottobre 2016

Retoriche dell'intransigenza e riforma costituzionale. Piccola guida per un dibattito consapevole.

Il dibattito attorno al referendum costituzionale di dicembre si è subito infiammato per la gioia dei talebani dei due schieramenti. Per riportare il confronto ad un livello un po' meno urlato e più riflessivo può essere utile il recupero della griglia analitica proposta una trentina di anni fa dall'economista naturalizzato americano Albert O. Hirschmann; in un libretto dedicato alle "retoriche dell'intransigenza" ha descritto tre argomenti ricorrenti nel dibattito pubblico sulle riforme, soprattutto da parte degli oppositori ma indirettamente anche dagli entusiasti: perversità, futilità, messa a repentaglio. Eccoli schematicamente:

Perversità. Per i critici le riforme lungi dal conseguire gli effetti positivi prospettati finiranno per peggiorare la situazione esistente, per via degli inevitabili effetti perversi e controproducenti che si annidano in ogni proposito riformatore, tanto da renderlo sicuramente dannoso.

Futilità. Nessuna riforma è davvero in grado di indurre veri cambiamenti. Le riforme risultano spesso inefficaci, dispendiose e perciò alla fine le cose sono destinate a rimanre più o meno invariate; in compenso faranno perdere tempo prezioso e disperderanno energie che si potevano utilizzare per altri scopi.

Messa a repentaglio. Per i detrattori l’attuazione di ogni riforma, oltre a produrre effetti perversi, è gravida di risvolti negativi, rischia di far fare passi indietro rispetto allo stato attuale; nel tentativo di attuarle è probabile che molto di buono verrà perso e la situazione potrebbe peggiorare assai, tanto da mettere a repentaglio principi, ideali e beni di grande valore.

Sulle "retoriche dell'intransigenza" fanno leva, come rileva per par condicio Hirschmann, entrambi gli schieramenti, pro e contro le riforme, che spesso fanno ricorso strumentale e speculare anche alla drammatizzazione e alla paura del dopo, ovvero che la riforma Costituzionale comporti rischi di derive autoritarie e anti-democratiche, da un lato, e che la vittoria del NO apra la strada, dall'altro, ad un periodo di incertezza e di instabilità per il sistema oltre ad un rinvio sine die delle riforme necessarie al paese.

A corollario delle tre categorie critici ed oppositori più strenui, specie se animati da partito preso ed avversione a priori, utilizzano altre argomentazioni di carattere psicologico, indirettamente collegate ai precedenti e tra loro correlate.

Perchè no....si ma, ovvero il benaltrismo. Sebbene qualcuno concordi con la necessità di introdurre alcune modifiche alla situazione attuale, come quelle previste dalla riforma Costituzionale, la critica radicale si appunta sul carattere parziale e insufficiente del progetto riformatore, che dovrebbe affrontare altri problemi più impellenti. Insomma bisognava affrontare ben altre questioni e nodi problematici con ben altra incisività.

Le ipersoluzioni. Il tenore delle modifiche apportate, all'insegna dei piccoli passi e delle riforme "a spizzico" à la Popper, è largamente insoddisfacente, limitato e inadatto alla gravità dei problemi, tant'è che rende pressochè inutile la riforma stessa. Si dovrebbe porre mano a cambiamenti più ampi, radicali, coraggiosi e profondi per incidere realmente sullo stato di cose presente.

Il tutto o nulla. Sebbene la riforma sia composta di svariati punti, indipendenti e non necessariamente connessi, il giudizio è irrevocabilmente negativo (o positivo) e drastico su tutto il fronte, anche se alcuni cambiamenti appaiono abbastanza neutri e tutto sommato ragionevoli e condivisibili, da parte di un oppositore che magari in passato li aveva già prospettati.

Quest'ultimo punto è dirimente per discriminare l'oppositore (o il sostenitore) a priori e per partito preso da quello, diciamo così, riluttante e "razionale".  La riforma, come per ogni intervento legislativo complesso, essendo il risultato di compromessi e laboriose trattative, risente di alcuni limiti ed è connotata da aspetti positivi e negativi, vantaggi e svantaggi, potenziali benefici e rischi. Sia gli uni che gli altri sono solo parzialmente prevedibili, poichè sarà l'applicazione pratica che farà emergere conseguenze non previste ed effetti collaterali, spesso non messi nel conto, negativi ma anche positivi.

Il giudizio di approvazione/disapprovazione scaturisce dal bilancio e dall'equilibrio tra vantaggi e svantaggi e dal loro peso relativo, che fa pendere la bilancia verso il Si o il NO. Sia il detrattore pasdaran che il supporter taleban non ammetteranno mai che esistono nella riforma zone grigie, ovvero che alcune parti sono condivisibili o al contrario criticabili. Per loro vale il prendere o lasciare, il bianco o nero, il giudizio entusiastico oppure la demolizione senza appello. Nella vita come in politica spesso il meglio è nemico del bene.

Il caso della riforma del titolo V° è emblematico delle insidie dei toni di grigio, detestati da chi vede solo una realtà in bianco-o-nero. La riforma federalista approvata con i voti risicati del centrosinistra era stata criticata a suo tempo anche da esponenti dello stesso schieramento, come più volte ricordato da D'Alema, per i rischi di conflitto di attribuzione delle materie concorrenti tra stato e regione. I rischi paventati si sono effettivamente verificati, in misura così rilevante da consigliare una decisa retromarcia in senso statalista, come quella inserita nella "riforma della riforma" del titolo V. Eppure chi allora criticava la frettolosa svolta federalista oggi si guarda bene dall'approvare la simmetrica riconversione centralista, che è curiosamente in sintonia con le critiche espresse a suo tempo.

Infine alcune annotazioni sul clima relazionale del dibattito. Il confronto, spesso più personale che ideologico, tra fan delle contrapposte tifoserie, si è trasformato in escalation relazionale ed in un conflitto di punteggiatura della sequenza comunicativa/interattiva, quasi da manuale della pragmatica comunicativa; prendendo spunto da accuse e toni sopra le righe ognuno imputa all'altro scorrettezza ed aggressività, che di conseguenza motivano e giustificano la propria reazione, parimenti insultante ed aggressiva, nella cornice della "serie oscillante infinita" e nel segno dell'escalation simmetrica, abbastanza prevedibile.

Il basso livello del confronto è condito dall'impossibilità di meta-comunicare e di porsi per un momento al di sopra del conflitto, che si trasforma in un vero e proprio sistema a due che abbraccia e avviluppa i contendenti nel reciproco bisogno di trovare un'essenza "brutta, sporca e cattiva" nell'altra tifoseria, legittimando quindi la forza delle reazioni di pancia che si alimenta di accuse e contro-accuse. Il gioco relazionale della reciproca squalifica segnala un deficit di spirito laico e tollerante, nel segno dalla personalizzazione esasperata, dell'antipatia epidermica e dal partito preso a prescindere.

domenica 2 ottobre 2016

Sul confronto TV tra Renzi e Zagrebelsky, a proposito di vinti e vincitori alle elezioni

Nel dibattito tra Renzi e Zagrebelsky ha tenuto banco la disputa lessicale sul fatto di "vincere" le elezioni, termine giudicato scorretto dal costituzionalista perchè non tiene conto che con il voto il popolo semplicemente affida ad un partito un mandato a governare e non decreta la sua "vittoria" sui concorrenti.  La disquisizione semantica appare abbastanza astratta e sofistica poichè da sempre in politica c'è chi vince e chi perde, tranne nel sistema proporzionale dove i contendenti, potendo contare su diversi parametri di raffronto, sono in grado di dimostrare di aver fatto comunque "bella figura" o perlomeno di non aver perso. In tutte le elezioni di tutto il mondo - specie nei sistemi uninominali, presidenziali e massimamente in quelli a doppio turno - il voto degli elettori indica il vincitore, di riflesso, chi ha perso.

Ma ci sono anche motivazioni più filosofiche che sportive per adottare questa prospettiva. Il filosofo Karl Popper dopo la serrata critica all’impostazione platonica - accusata ne “La società aperta e i suoi nemici” di proto-totalitarismo per aver indicato nei "filosofi" i legittimi titolari del governo - riformula la questione politica chiedendosi non tanto chi debba governare ma in che modo è possibile sostituire governanti inetti, corrotti, dispotici, inefficaci o solo poco adatti, evitando spargimenti di sangue, come invece è accaduto spesso nella storia e accade tutt’ora in molti paesi, teatro di scontri violenti per il ricambio politico “rivoluzionario”? La soluzione sta nel ricorso alle elezioni, che in un sistema democratico sono lo strumento più adatto per assicurare la cacciata di governi inetti o corrotti ed assicurare il rinnovamento della classe politica in modo incruento.

La questione è di costante attualità in Italia, non tanto per il rischio di guerra civile, come nel recente tragico passato novecentesco, ma per uno scenario politico fatto di cronica instabilità, incertezza, ingovernabilità, divisività e contrapposizioni paralizzanti senza sbocchi riformatori, come quelle che hanno contraddistinto l’ultimo ventennio. Non tutti i sistemi elettorali però sono in sintonia con la concezione popperiana della democrazia come strumento per disfarsi di governi inetti nel segno dell'alternanza al potere.

Per 30 anni il nostro sistema politico, a causa del sistema proporzionale, ha vissuto nella perdurante impossibilità di una fisiologica alternanza di schieramenti bipolari, coesi e duraturi per il tempo necessario ad ottenere l’approvazione o la disconferma elettorale da parte dei cittadini. Le regole del gioco democratico ipotizzate da Popper, proprio grazie al sistema elettorale, dovrebbero al contrario assicurare controllo democratico, bilanciamento e separazione di poteri, ma soprattutto concreta possibilità di alternanza al potere e fisiologico ricambio delle classi dirigenti.

Non vi è nulla di scandaloso e di sconveniente, la campagna elettorale è una partita in cui alla fine uno vince, che abbia la maggioranza relativa e a maggior ragione se supera quella assoluta, con il ballottaggio o nei collegi uninominali (Cameron ha avuto maggioranza dei seggi con il solo 35% dei voti e nessuno ha gridato allo scandalo: il collegio uninominale è il più distorsivo della reale rappresentanza, altro che l'Italicum). E' la regola del gioco democratico à la Popper e senza bisogno di scomodare la dittatura della maggioranza. Alla fine del mandato ci sarà la riconferma o la defenestrazione pacifica, se il governo ha dato una cattiva prova, come accade in Francia da 40 anni, grazie ai ballottaggi nelle elezioni presidenziali e legislative.

Tra le vaie formule il sistema a doppio turno esalta la valenza alternativa del voto, dirimente tra i due contendenti, in sintonia con il modello proposto da Popper; infatti gli elettori al secondo turno hanno in mano un carta in più, una sorta di doppio atout elettorale perchè nel momento in cui premiano un partito automaticamente penalizzano l'altro. La possibilità del ricambio politico è la regola del gioco, il sale della democrazia e l'arma a disposizione degli elettori per decretare un chiaro vincitore, a parte naturalmente i sistemi proporzionali in cui decidono i vertici dei partiti, con governi di coalizione a base di mercanteggiamenti di posti e trattative all'insegna del do ut des, com'è successo per 30 anni nella partitocrazia italiana fino al 1992.

Ma basta guardare quello che è successo in Spagna nell'ultimo anno, per avere un'idea degli esiti di un'elezione che, grazie al sistema proporzionale, non è in grado di decretare IL vincitore! Se il ballottaggio funziona in un sistema bipolare, a maggior ragione in un assetto tri- o addirittura quadripolare (come quello spagnolo o britannico) è in grado di portare a termine quel processo di selezione che fa emergere da una pluralità di concorrenti un chiaro vincitore, designato dalla doppia opzione di voto dagli elettori e non frutto delle alchimie tra vertici dei partiti politici, spesso ridotti a meri comitati elettorali e di interessi particolari.