Il colpo di
scena è arrivato all’ora di pranzo, rilanciato dai siti internet dei
quotidiani. Non è dato sapere se la clausola di salvataggio del doppio turno,
nel caso in cui nessun contendente superi al primo la “ragionevole” soglia del
35% dei voti, sia stata decisa alla vigilia della direzione del PD o se era già
compresa nella bozza di accordo definita da Renzi e Berlusconi nell’ormai
storico incontro al Nazareno.
Ad ogni buon conto il coup de theatre è stato
efficace ed ha spiazzato la minoranza interna del PD, rassegnatasi ad una
scialba astensione nel voto finale in direzione nazionale del partito. Di
fatto, seppur con qualche timido mugugno minoritario, il PD approva la linea del
segretario. Non mancano alcune distonie rispetto alla sentenza della Consulta
sul Porcellum, in primis una soglia troppo bassa e un premio troppo generoso.
Tuttavia la riforma renziana supera la sua prima prova politica e rafforza la
leadership del sindaco di Firenze, a cui è riuscita l’impresa che mai nessuno,
negli ultimi 20 anni, aveva tentato di avviare e men che meno portare a termine
in poche settimane, a partire dal fallimento della bicamerale. Chapeau!
Niente a
che vedere, in quanto a rilevanza pratica e respiro riformista, con la seconda
scheda/opzione elettorale consegnata nelle mani dei cittadini. Il ballottaggio
è lo strumento cardine per designare in
modo inequivocabile il vincitore e lo sconfitto, sottraendo alle segreterie di
partito il potere di trattativa, veto, scambio, interdizione ed inciucio, che
ha inibito per decenni ogni coesione governativa e i gli sforzi per un
autentico riformismo. Per di più i numeri dell'offerta elettorale tri-polare,
dopo le elezioni del 2013, non lasciano più spazio a meccanismi elettorali
inconcludenti, forieri di esiti incerti e di inevitabili governi di larghe intese
ad libitum, come nel caso del proporzionale rinato dalle spoglie del Porcellum,
amputato dalla Consulta. La designazione dello schieramento politico idoneo a
reggere le sorti della Repubblica non può che passare per un processo selettivo
ed adattativo fondato sulla doppia scelta degli elettori, incomparabilmente più
rilevante rispetto alla singola designazione ad personam della preferenza. E’
il doppio turno a fare la differenza finale tra una legge buona ed una
gattopardesca, da qualsiasi modello si parta.
Con il doppio turno viene mano la necessità di alleanze elettorali
eterogenee e condizionate dai piccoli partiti, esclusi di fatto dallo
sbarramento del 5%, tali da consentire ad una coalizione di raggiungere la
soglia minima, superare gli avversari ed incassare il pingue premio di
maggioranza. Tuttavia una soglia ancor più elevata avrebbe tolto ai partiti di
medie dimensioni l’incentivo ad offrire i propri voti al miglior offerente,
visto che a fare la differenza rispetto alla coalizione antagonista sarebbero
stati i consensi degli elettori al ballottaggio.
Di certo il
Cavaliere era maldisposto a rinunciare ai suoi obiettivi ed in effetti la
tattica negoziale delle ultime settimane mirava ad evitare concessioni su
entrambi i fronti, incassando sia le liste bloccate che il singolo turno di
voto. Ma se proprio si doveva cedere e concedere qualche cosa al do ut des di
ogni trattativa che si rispetti, certamente avrebbe tenuto duro sul turno unico
e fatto concessioni sulle preferenze. Invece Renzi è riuscito a fargli digerire
il rospo del ballottaggio, seppure come clausola di salvaguardia nel caso in
cui il vincitore del primo turno non superi la soglia del 35%. Una metamorfosi
che cambia i connotati e l’impianto del modello spagnolo, tanto caro al
Cavaliere, fino a poche ore dalla svolta dato per acquisito, con il rischio di
inevitabili ripercussioni critiche all’interno del PD e nella pubblica opinione.
Invece alla
minoranza cuperliana non è rimasta che la protesta di facciata per la conferma
delle liste bloccate e la rinuncia alla reintroduzione delle preferenze, come
se non fosse la parte meno rilevante della trattativa a fronte della governabilità
e dell’esito bipolare garantito dal ballottaggio. D’altra parte già le
polemiche pretestuose sul summit “scandaloso” del Nazereno, tra il giovane
segretario e l’anziano pregiudicato, facevano presagire l’attaccamento a vecchi
schemi valutativi, intrisi di posizioni “ontologiche” e pertanto incapaci di
percepire lo scarto pragmatico tra le due opzioni in gioco.
Oltre alla
minoranza PD, altri due attori escono malconci da questa partita, che solo i
gli eventi parlamentari futuri potranno connotare come storica. In primis il
premier Letta, la cui irrilevanza pratica sul fronte delle riforme
istituzionali è pari solo alle incertezze e alle figuracce inanellate negli
ultimi mesi. Anche Grillo esce con le ossa rotte dalla breve stagione delle
trattative sulle riforme, da sempre auto-relegatosi in un aventino a
prescindere, fatto di irrilevanza e di scontrosità adolescenziale per
incapacità a relazionarsi con chicchessia, anche con chi poteva concretizzare
una svolta annunciata e mai nemmeno tentata. Ma ormai è tardi e forse è
iniziato il declino per esaurimento degli astri della politica italiana.
Alla fine,
una volta tanto, ha prevalso la ragionevolezza dei numeri e del bene comune
sulle pulsioni di parte e sugli interessi particolari. Un buona giornata per la
Repubblica!