All'indomani delle elezioni regionali francesi e, soprattutto, delle politiche spagnole si è riacceso il dibattito politico italiano attorno alla legge elettorale.
Sul piano istituzionale il sistema elettorale delle regionali francesi assomiglia all'Italicum, con due differenze, peraltro non rilevanti: al secondo turno possono accedere tutti i partiti che hanno superato il 10% al primo ed il premio di maggioranza è fissato rigidamente al 25%, indipendentemente dalla percentuale raggiunta dal vincitore del ballottaggio.
Anche la Francia è entrata nel club dei sistemi politici tripolari, che confermano il ruolo del ballottaggio per evitare ingovernabilità e frammentazione politica, come sarebbero stati quelli del primo turno elettorale. Infatti le percentuali del ballottaggio non si sono discostatein modo significativo rispetto a quelle della domenica precedente, perlomeno nelle regioni in cui la corsa per la vittoria era a tre; in 5 macroregioni su 13 le tre liste del II° turno hanno conquistato più o meno 1/3 dei voti l'una, a dimostrazione della necessità del premio di maggioranza per garantire un risultato elettorale certo e una salda governabilità.
L'ncremento dei votanti al ballottaggio, attorno al 10%, ha consentito il ribaltamento dell'esito del primo turno, mettendo in minoranza il FN in tutte le regioni. Ha fatto la differenza, tra primo e secondo turno, la scelta dei socialisti di "sacrificare" le proprie liste nelle regioni in cui si è registrato l'expolit delle due candidate simbolo del FN, Marion al sud e Marine a nord. In queste due regioni chiave il confronto è stato a due, come nello schema del ballottaggio dell'Italicum, ed i risultati hanno penalizzato il FN per il travaso di voti dalle liste socialiste a quelle centriste.
Quando prevale lo spirito unitario sulle divisioni il tradizionale elettorato di sinistra risponde e si mobilita per arginare l'ondata xeno-populista, com'era accaduto all'inizio del secolo con le presidenziali vinte da Chirac su Le Pen padre. Così un buon numero di francesi è tornato alle urne del ballottaggio ed ha saggiamente optato per il male minore, confermando che questo è il criterio di scelta "razionale" in politica, a dispetto del massimalismo e dei difensori della purezza ideologica.
Al dunque i valori repubblicani hanno ridimensionato i fantasmi della repubblica di Vichy e la prospettiva, per nulla campata in aria, di uno scontro sociale a sfondo religioso. Ma per quanto ancora funzionerà il richiamo ai principi repubblicani per fronteggiare i partiti xeno-populisti?
In Spagna è andato in scena un copione speculare a quello francese, con un'inedita frammentazione partitica, addirittura a quattro, che conferma ormai a livello dell'Europa mediterranea il definitivo tramonto del bipolarismo e dell'alternativa secca destra/sinistra. Il risultato finale, opposto a quello emerso dal secondo turno delle elezioni francesi, è stato all'insegna della massima incertezza: un rebus politico che sarà difficile risolvere per dare alla Spagna un governo stabile e coeso, proprio perchè le due nuove formazioni iberiche sono cresciute elettoralmente in netta contrapposizione ai vecchi partiti novecenteschi.
Per decenni il sistema politico è rimasto ingessato sul modello novecentesco della dicotomia tra destra e sinistra, mentre la storia con la caduta del muro di Berlino viaggiava nel senso del superamento di quel modello, o perlomeno dei suoi rappresentanti ed eredi storici, ovvero verso una progressiva differenziazione della rappresentanza politica. A sospingere in questo direzione è stata l'evoluzione di una società sempre più liquida e, a sua volta, ancor più differenziata e anonima, che non poteva non scardinare vecchie appartenenze, identità consolidate, affiliazioni ideali divenute sempre più labili o addirittura dissoltesi nel mare magnum del partito astenista, unico trionfatore delle ultime elezioni seppur nel segno della defezione dalle urne.
Riproporre la vecchia contrapposizione novecentesca, come fa qualche commentatore, sotto le mentite spoglie del conflitto tra partiti di sistema e presunti movimenti anti-sistema appare una semplificazione che non coglie le tensioni a cui è sottoposta la democrazia in Europa. Del resto la frammentazione in 3-4 raggruppamenti parlamentari è la prova provata epirica che l'alternativa elettorale tra destra o sinistra non è più attraente; le nuove formazioni "emergenti" sono accomunate dallo sfruttamento dalla rabbia anti-casta e si propongono come collettore di risentimenti e frustrazioni sociali alimentate dalla crisi economica e dalle tensioni della globalizzazione.
La protesta alimenta il consenso verso i presunti movimenti anti-partiti storici - questi ultimi a loro volta sottoposti alla stessa liquefazione sociale - che capitalizzando il malcontento si candidano ad alternativa politica di sistema in senso classico, come Podemos in Sapagna o il M5S in Italia. L'aspirazione al ricambio generazionale e alla rottura con il passato novecentesco aveva sospinto il Matteo Renzi "rottamatore" prima alla testa del PD e poi al "trionfo" delle Europee; la spinta propulsiva si è però esaurita nella fase successiva, come nelle classiche lune di miele post-elettorali, sotto il peso di riforme osteggiate da ogni lato e di una ripresa economica stentata e poco percepita.
In questo contesto di grandi cambiamenti politici continentali è riemersa la proposta di cambiare l'Italicum da parte di forze politiche centriste e della sinistra PD, peraltro con obiettivi divergenti: da un lato i centristi puntano alla riedizione del premio di maggioranza alla coalizione invece che al partito e, dall'altro, le diverse anime della sinistra PD vagheggiano il ritorno ai collegi uninominali (Bersani) o ad proporzionale stile prima repubblica (Sinistra Italiana).
Fino ad un mese fa il proposito di riformare la riforma, prima ancora della sua entrata in vigore e dell' applicazione "sul campo" per verificarne gli esiti pratici, appariva illogica e irragionevole; oggi dopo il combinato disposto delle elezioni francesi e, soprattutto, di quelle spagnole l'obiettivo appare improponibile, velleitario e soprattutto a rischio di generare ulteriore instabilità politica ed incertezza.
Giustamente il presidente del Consiglio ha definito "benedetto" l'Italicom. In un'Europa avviata verso assetti tripolari o addirittura quadripolari il vecchio proporzionale a turno unico ha perso valore, mentre emerge l'esigenza di un sistema elettorale che garantisca un risultato certo ed una maggioranza univoca per l'intero mandato.
sabato 26 dicembre 2015
domenica 13 dicembre 2015
La demonizzazione dell'Italicum ovvero la negazione della realtà
La
demonizzazione dell'Italicum, in nome di un suo presunto carattere
anti-democratico e anti-costituzionale, parte dalla negazione della
realtà, dalla cancellazione dei fatti, dall'amnesia delle vicende
giuridiche: tutto si confonde si appiattisce nel medesimo giudizio
negativo, il prima uguale al dopo, in una valutazione indistinta, in
un appiattimento cognitivo che nega le differenze empiriche, i
cambiamenti fattuali, l'evoluzione delle cose. Ovviamente il
cambiamento non è sinonimo di miglioramento, ma è difficile negare
l'evidenza, ovvero che l'oggetto è cambiato e non certo in modo
spontaneo, ma per le “istruzioni” impartite da un organo super
partes come la Consulta.
L’Italicum non è certo la migliore delle leggi
elettorali possibili, non essendo priva di limiti e imperfezioni
varie. Tuttavia leggendo certe critiche sembra quasi che sia stata
preceduta da una legge bellissima e priva di ogni difetto, e non
invece della Porcata bocciata dalla consulta per il fatto di:
1-attribuire in un turno unico la maggioranza dei
seggi anche ad un partito o coalizione con percentuali di voti ben
lontane dal 50%, come nel 2013, e in teorie pure inferiori al 20%
delle schede valide;
2-grazie ad un premio di maggioranza smisurato e
virtualmente illimitato, quindi smodatamente distorsivo del principio
della rappresentanza proporzionale.
A queste due macroscopiche storture ha posto
rimedio l’Italicum, con la ragionevole soglia minima per un premio
limitato (altro che “smisurato”) e il ballottaggio “eventuale”;
è buffo, ma per i suoi critici la correzione di queste due anomalie
pare abbia addirittura aggravato la situazione, tanto da dipingere
l’Italiucm come foriero di una soprendente “distorsione
gravissima della rappresentanza” perfino peggiore del Porcellum, il
che è tutto dire e sintomo di una scotomizzazione amnesia del
recente passato.
Quanto al rischio che gli elettori eleggano
indirettamente, grazie ai due turni e al premio di maggioranza, il
capo del governo, non è ciò che accade di routine in nazioni come
il Regno Unito, noto sistema politico totalitario e liberticida?
Laddove il leader del partito vincitore diviene automaticamente
premier, talvolta con consensi attorno al 30%, grazie al più
disproporzionale e distorsivo dei sistemi elettorali, ovvero
l’uninominale maggioritario a turno unico. Un’autentica dittatura
da maggioranza “garantita”, che fa rigirare nel loculo da quasi
due secoli il visconte Alexis de Tocqueville.
Per non parlare delle presidenziali in USA o in
Francia; l’elezione del presidente francese si abbina di norma ad
una maggioranza parlamentare a suo favore, talvolta di entità
bulgara, grazie al doppio turno maggioritario, senza che nessuno se
ne scandalizzi o gridi alla dittatura. Quanto
alle virtù salvifiche, per la rappresentatività democratica,
dell'uninominale maggioritario, propugnato da alcuni ricorrenti
anti-Italicum, giova ricordare che
-
in Francia il ballottaggio nei collegi ha garantito al presidente neo-eletto maggioranze parlamentare bulgare, anche dell'80%;
- in GB all'opposto il collegio uninominale a turno unico ha propiziato in passato a Tony Blair una solida maggioranza assoluta dei seggi con il solo 35% dei consensi raccolti nelle urne, mentre nelle ultime elezioni i liberaldemocratici con il 12,6% di voti hanno avuto un solo rappresentante.
Qual'è
quindi il sistema elettorale più antidemocratico? Quale invece tutela
meglio la rappresentanza democratica?
Il rischio che un partito con consensi minoritari
in valore assoluto si aggiudichi la maggioranza degli eletti è
comune a tutti i sistemi elettorali, ma è più accentuato in quelli
maggioritari, perché dipende da quanti cittadini decidono di
disertare le urne più che dalle modalità di elezione dei loro
rappresentanti. Basta considerare le lezioni presidenziali della
culla della democrazia, ovvero gli USA, dove Obama nel 2012 è stato
eletto con poco più del 50%, cioè grazie ad un pugno di voti in più
del suo avversario, a fronte di un’affluenza al voto del solo 49%.
In sostanza è diventato presidente con meno del 25% dei voti
complessivi e nessuno si è stracciato le vesti.
La necessità di una soglia minima di voti
a garanzia della validità del voto attiene ad ogni elezione, sia a
doppio turno che singolo; il mancato raggiungimento del 50% di
votanti costituisce un problema generale e trasversale ai diversi
sistemi elettorali, che testimonia la disaffezione dei cittadini per
la democrazia rappresentativa e non certo la “bontà” o
illegittimità di una legge elettorale. Lo si potrebbe risolvere solo
con l’invalidazione delle elezioni, come accade con i referendum
abrogativi che non superano il 50% di affluenza ai seggi, ma a prezzo
della ripetizione delle votazioni anche più volte, magari restando
per un bel po’ senza governo. Ma ce la vedete la democrazia USA che replica le
elezioni presidenziali perché le schede sono risultate inferiori al
50% degli aventi diritto, magari solo per un pugno di votanti in
meno?
La garanzia di una maggiore governabilità deriva
non tanto dal doppio turno, ma bensì dall’attribuzione del
(limitato) premio di maggioranza alla lista invece che alla
coalizione, come prevedeva il Porcellum, che non a caso ha prodotto
maggioranze tanto composite quanto litigiose e fragili. Ben diverso è
stato negli ultimi 20 anni l’esito delle elezioni comunali in
quanto a governabilità, anche se tra doppio turno delle elezioni
locali e quello introdotto dall'Italicum su scala nazionale vi è
solo un’analogia di fondo.
E'
banale e risaputo, ma la realtà è fatta di toni di grigio e di
gamme cromatiche e non di un bianco-o-nero manicheo o, peggio ancora,
della stessa cupa luminosità in cui, come diceva il filosofo, tutti
i bovini appaiono ugualmente neri. Le sfumature di grigio si
applicano anche al problema della governabilità: se non è garantito
che il premio alla lista assicuri la stabilità dell'esecutivo, di
certo il premio ad una coalizione frammentata e composita incentiva i
comportamenti opportunistici dei partitini, a mo del famoso Ghino di
Tacco, con elevato rischio di litigiosità e instabilità, come
dimostra la vicenda dell'Ulivo e la caduta di Prodi per mano dei
rifondatori.
CONCLUSIONI.
Con l'Italicum si è perlomeno ottemperato alla Sentenza di
bocciatura del Porcellum, che era incostituzionale per i due ordini
di motivi, ben noti: (i) un premio di maggioranza virtualmente
illimitato e quindi distorsivo della rappresentanza (ii) in quanto
attribuito senza una ragionevole soglia percentuale minima di voti.
Il nuovo sistema elettorale ha posto rimedio a questi due gravi
difetti e quindi è ritornato nell'alveo della Costituzione, a
differenza del Porcellum. Si tratta di fatti incontrovertibili a
dimostrazione autoevidente del cambiamento, della differenza tra
Porcellum ed Italicum, che può non piacere per altri motivi, ma è un dato di realtà
verso il quale le polemiche faziose si infrangono come le onde sugli
scogli.
Quindi
non servono affatto strane giustificazioni per tentare di
imbellettare una legge “altrettanto pessima” del Porcellum, ma
solo la sottolineatura della differenza tra il prima di una porcata
incostituzionale ed il dopo di una riforma elettorale in linea con i
“paletti” piantati dalla Consulta, seppure non certo perfetta e
quindi perfettibile. Dunque le differenze tra le due leggi esistono eccome,
sono comprensibili anche per un ragazzino, posto che le si voglia
vedere con un minimo di onestà intellettuale, e solo da una
posizione di parte si potrebbe far finta di nulla, accomunando nel
medesimo giudizio negativo leggi ben distinte, se non altro per i due
profili di incostituzionalità del Porcellum.
domenica 6 dicembre 2015
Come uscire dal ginepraio delle primarie all'ombra della Madunina....
Squadra che vince non si cambia! Violare questa regola aurea comporta non pochi rischi di effetti perversi e flop elettorale. Se invece il sindaco uscente non si ripresenta significa che qualche cosa non ha funzionato, che la sua maggioranza non regge più, che è stato sfiduciato dal proprio partito o da un elettorato scontento del suo operato. Il passaggio da un candidato sindaco ad un'altro della stessa area politica è sempre problematico, specie se non avviene dopo due mandati, perchè gli elettori hanno l'occasione di indurre un radicale ricambio se l'amministrazione uscente non li ha soddisfatti.
A Milano però la situazione è ancor più complicata e per certi versi paradossale, per il fatto che non si ripresenta il sindaco uscente, a detta di tutti buon amministratore come testimonia l'indubbio successo dell'Expo, a dispetto dei vari "gufi". Ergo il futuro candidato sindaco deve raccogliere l'eredità della precedente amministrazione, garantire la continuità e il completamento del programma arancione, per poter ambire alla successione; se invece si smarca, prende le distanze dalla giunta uscente ammette implicitamente che il suo predecessore non ha dato buona prova di se e quindi rischia di alienarsi un buon numero di consensi, se non altro tra i cittadini milanesi soddisfatti e favorevoli alla giunta uscente di palazzo Marino.
In teoria tutti i contendenti alle primarie milanesi dovrebbero presentarsi come garanti della continuità rispetto alla giunta Pisapia, ma nel contempo devono in qualche misura distinguersi dagli altri competitor alla successione per ottenere la fiducia del popolo delle primarie e prevalere nelle urne. E qui entra in gioco il livello politico nazionale che, rispetto all'elezione di Pisapia, è radicalmente cambiato, complicando non poco la situazione con divisioni, contrasti e dinamiche di potere che riverberano sulla capitale lombarda il contrasto tra sostenitori renziani ed avversari anti-renziani di sinistra, fuori e dentro il PD, del governo nazionale.
Sala è chiamato a conseguire due obiettivi, solo in parte espliciti e quindi anche un po' contraddittori, al limite del "doppio legame":
⦁ (a) succedere a Pisapia come esponente tecnico riconquistando palazzo Marino al PD renziano, senza però squalificare la precedente amministrazione a cui ha contribuito con la gestione vincente dell'EXPO, ma anzi rivendicandone l'efficacia e nel contempo
⦁ (b) emarginare la componente di sinistra anti-renziana, rappresentata in quel di Milano proprio dalle correnti pro-Pisapia dell'alleanza arancione, com'è successo a Roma con la fuoriuscita di Sinistra Italiana, che peraltro sotto la Madonnina garantisce l'appoggio al centrosinistra.
Per quale motivo un cittadino milanese dovrebbe preferire Sala se costui si smarca o squalifica implicitamente la gestione uscente, a cui ha peraltro contribuito in modo significativo? Essendo un un tecnico prestato alla politica, sarà certamente in difficoltà nel portare a termine questo ambiguo mandato nella "battaglia" della primarie milanesi. Avrebbe certamente preferito un'investitura dall'alto del Nazareno, ma suo malgrado dovrà vedersela con gli elettori di centrosinistra e con la sua versione "civica" milanese, in genere pragmatica ed allergica ai giochetti politici romani, rischiando quindi di bruciarsi come politico ed anche come tecnico prestato alla politica.
Il compito degli altri due candidati in pectore (Majorino e Balzani) è apparentemente più semplice, perchè entrambi avendo avuto ruoli significativi nella giunta Pisapia possono a buon diritto rivendicarne il lascito, presentandosi come garanti della massima continuità programmatica per portare a termine il programma. La logica vorrebbe che uno dei due si ritirasse a favore dell'altro, visto che entrambi afferiscono alla medesima ala sinistra dello schieramento, facendo l'uno il sindaco e l'altro il vice, specie se Fiano dovesse simmetricamente farsi da parte per lasciare campo libero a Sala.
Se non dovesse accadere dovranno procedere ad una campagna elettorale "fratricida", fatta di distinzioni ed "attacchi" l'uno contro l'altro all'insegna de "io sono l'autentico erede di Pisapia" - a mo dei proverbiali polli di Renzo o di fratelli in lotta per il lascito del congiunto - per rastrellare il maggior numero di consensi, facendo ovviamente contento il terzo litigante. Vedremo nei prossimi giorni se prevarrà lo spirito civico e di schieramento sulle "beghe familiari" e sulle ambizioni personali.
Questo complicato scenario spiega le fibrillazioni di questi giorni nella politica meneghina, a base di schermaglie procedurali, sottili squalifiche reciproche, giochi di partito e corrente, veti incrociati e messaggi cifrati, insomma il peggio della politica politicante, incomprensibile per i cittadini e urticante per i sostenitori, ad eccezione dei militanti schierati sui vari fronti. Le primarie dovrebbero servire proprio per fare piazza pulita di tutti questi giochetti, da vecchia politica e pura lotta per il potere, per lasciare spazio al giudizio della gente sui programmi e sulle intenzioni dei contendenti alla poltrona di sindaco.
Il candidato unitario sarà deciso dagli gli elettori delle primarie e poi da tutti i milanesi nelle urne elettorali. Una parte politica o una corrente non può certo rivendicare o imporre il "proprio" candidato unitario, che è una contraddizione in termini: se fosse davvero unitario si potrebbe tranquillamente fare a meno delle primarie, evidentemente.
Se invece dovesse prevalere un copione di colpi bassi, ripicche e tentativi di manipolazione del voto, simile a quello andato in scena all'ombra della Lanterna alle recenti primarie Liguri, sarebbe garantito uno sviluppo tafazziano anche per palazzo Marino, fino all'esito di una probabile sconfitta nelle urne. Gli avversari politici naturalmente tifano per questa prospettiva e, per ora,fanno i salti di gioia per la masochistica escalation conflittuale andata in scena nelle ultime settimane nel centrosinistra milanese. Ma a Milano non doveva prevalere lo spirito civico unitario e la concretezza meneghina sulle lotte intestine senza esclusione di colpi della politica nazionale?
A Milano però la situazione è ancor più complicata e per certi versi paradossale, per il fatto che non si ripresenta il sindaco uscente, a detta di tutti buon amministratore come testimonia l'indubbio successo dell'Expo, a dispetto dei vari "gufi". Ergo il futuro candidato sindaco deve raccogliere l'eredità della precedente amministrazione, garantire la continuità e il completamento del programma arancione, per poter ambire alla successione; se invece si smarca, prende le distanze dalla giunta uscente ammette implicitamente che il suo predecessore non ha dato buona prova di se e quindi rischia di alienarsi un buon numero di consensi, se non altro tra i cittadini milanesi soddisfatti e favorevoli alla giunta uscente di palazzo Marino.
In teoria tutti i contendenti alle primarie milanesi dovrebbero presentarsi come garanti della continuità rispetto alla giunta Pisapia, ma nel contempo devono in qualche misura distinguersi dagli altri competitor alla successione per ottenere la fiducia del popolo delle primarie e prevalere nelle urne. E qui entra in gioco il livello politico nazionale che, rispetto all'elezione di Pisapia, è radicalmente cambiato, complicando non poco la situazione con divisioni, contrasti e dinamiche di potere che riverberano sulla capitale lombarda il contrasto tra sostenitori renziani ed avversari anti-renziani di sinistra, fuori e dentro il PD, del governo nazionale.
Sala è chiamato a conseguire due obiettivi, solo in parte espliciti e quindi anche un po' contraddittori, al limite del "doppio legame":
⦁ (a) succedere a Pisapia come esponente tecnico riconquistando palazzo Marino al PD renziano, senza però squalificare la precedente amministrazione a cui ha contribuito con la gestione vincente dell'EXPO, ma anzi rivendicandone l'efficacia e nel contempo
⦁ (b) emarginare la componente di sinistra anti-renziana, rappresentata in quel di Milano proprio dalle correnti pro-Pisapia dell'alleanza arancione, com'è successo a Roma con la fuoriuscita di Sinistra Italiana, che peraltro sotto la Madonnina garantisce l'appoggio al centrosinistra.
Per quale motivo un cittadino milanese dovrebbe preferire Sala se costui si smarca o squalifica implicitamente la gestione uscente, a cui ha peraltro contribuito in modo significativo? Essendo un un tecnico prestato alla politica, sarà certamente in difficoltà nel portare a termine questo ambiguo mandato nella "battaglia" della primarie milanesi. Avrebbe certamente preferito un'investitura dall'alto del Nazareno, ma suo malgrado dovrà vedersela con gli elettori di centrosinistra e con la sua versione "civica" milanese, in genere pragmatica ed allergica ai giochetti politici romani, rischiando quindi di bruciarsi come politico ed anche come tecnico prestato alla politica.
Il compito degli altri due candidati in pectore (Majorino e Balzani) è apparentemente più semplice, perchè entrambi avendo avuto ruoli significativi nella giunta Pisapia possono a buon diritto rivendicarne il lascito, presentandosi come garanti della massima continuità programmatica per portare a termine il programma. La logica vorrebbe che uno dei due si ritirasse a favore dell'altro, visto che entrambi afferiscono alla medesima ala sinistra dello schieramento, facendo l'uno il sindaco e l'altro il vice, specie se Fiano dovesse simmetricamente farsi da parte per lasciare campo libero a Sala.
Se non dovesse accadere dovranno procedere ad una campagna elettorale "fratricida", fatta di distinzioni ed "attacchi" l'uno contro l'altro all'insegna de "io sono l'autentico erede di Pisapia" - a mo dei proverbiali polli di Renzo o di fratelli in lotta per il lascito del congiunto - per rastrellare il maggior numero di consensi, facendo ovviamente contento il terzo litigante. Vedremo nei prossimi giorni se prevarrà lo spirito civico e di schieramento sulle "beghe familiari" e sulle ambizioni personali.
Questo complicato scenario spiega le fibrillazioni di questi giorni nella politica meneghina, a base di schermaglie procedurali, sottili squalifiche reciproche, giochi di partito e corrente, veti incrociati e messaggi cifrati, insomma il peggio della politica politicante, incomprensibile per i cittadini e urticante per i sostenitori, ad eccezione dei militanti schierati sui vari fronti. Le primarie dovrebbero servire proprio per fare piazza pulita di tutti questi giochetti, da vecchia politica e pura lotta per il potere, per lasciare spazio al giudizio della gente sui programmi e sulle intenzioni dei contendenti alla poltrona di sindaco.
Il candidato unitario sarà deciso dagli gli elettori delle primarie e poi da tutti i milanesi nelle urne elettorali. Una parte politica o una corrente non può certo rivendicare o imporre il "proprio" candidato unitario, che è una contraddizione in termini: se fosse davvero unitario si potrebbe tranquillamente fare a meno delle primarie, evidentemente.
Se invece dovesse prevalere un copione di colpi bassi, ripicche e tentativi di manipolazione del voto, simile a quello andato in scena all'ombra della Lanterna alle recenti primarie Liguri, sarebbe garantito uno sviluppo tafazziano anche per palazzo Marino, fino all'esito di una probabile sconfitta nelle urne. Gli avversari politici naturalmente tifano per questa prospettiva e, per ora,fanno i salti di gioia per la masochistica escalation conflittuale andata in scena nelle ultime settimane nel centrosinistra milanese. Ma a Milano non doveva prevalere lo spirito civico unitario e la concretezza meneghina sulle lotte intestine senza esclusione di colpi della politica nazionale?
domenica 29 novembre 2015
Pregi e difetti dell'Italicum
L’Italicum non è il migliore dei sistemi
elettorali al mondo, non essendo privo di limiti e imperfezioni varie.
Tuttavia leggendo certe critiche sembra quasi che sia stata preceduta da una
legge bellissima e priva di ogni difetto, la migliore delle leggi possibili e non invece quella Porcata bocciata dalla
consulta, per il fatto di:
1-attribuire in un unico turno la maggioranza assoluta dei
seggi anche ad un partito o coalizione con percentuali di voti ben lontane dal
50%, cioè inferiori al 30% come nel 2013, e in teorie anche poco più del 20%
delle schede valide;
2-in virtù dell’assenza di una soglia minima e di un
conseguente premio di maggioranza smisurato e virtualmente illimitato, quindi
smodatamente distorsivo del principio della rappresentanza proporzionale.
A queste due macroscopiche storture ha posto rimedio
l’Italicum, con la ragionevole soglia minima per un premio limitato (altro che
“smisurato”) e il ballottaggio “eventuale”; è buffo, ma per i suoi critici la
correzione di queste due palesi anomalie costituzionali pare abbia addirittura aggravato la situazione,
tanto da dipingere l’Italiucm come foriero di una “distorsione gravissima della
rappresentanza” perfino peggiore del Porcellum, il che è tutto dire e sintomo
di una scotomizzazione amnesia del recente passato.
Quanto al rischio che i cittadini eleggano indirettamente,
grazie ai due turni e al premio di maggioranza, il capo del governo, non è ciò
che accade di routine in nazioni come il Regno Unito, noto sistema politico
totalitario e liberticida? Laddove il leader del partito vincitore diviene
automaticamente premier, talvolta con consensi attorno al 30%, grazie al più
disproporzionale e distorsivo dei sistemi elettorali, ovvero l’uninominale
maggioritario a turno unico. Un’autentica dittatura da maggioranza “garantita”,
che fa rigirare nel loculo da quasi due secoli il visconte Alexis de Tocqueville.
Per non parlare delle presidenziali in USA o in Francia; l’elezione
del presidente francese si abbina di norma ad una maggioranza parlamentare a
suo favore, talvolta di entità bulgara, grazie al doppio turno maggioritario, senza
che nessuno se ne scandalizzi o gridi alla dittatura. Le maggiori garanzie
verso presunte derive autoritarie restano la mancanza del vincolo di mandato e
la maggioranza qualificata per l’elezione degli organi di garanzia
costituzionale, entrambe confermate dalla riforma costituzionale.
Il rischio che un partito con consensi minoritari si
aggiudichi la maggioranza assoluta degli eletti è comune a tutti i sistemi elettorali,
maggioritari o proporzionali, a singolo o doppio turno, perché dipende dal
numero di cittadini che decidono di disertare le urne e non dalle modalità di
elezione dei loro rappresentanti. Sebbene gli astenuti come gli assenti hanno sempre torto, la democrazia rappresentativa versa in uno stato di profonda
crisi in tutto l’occidente, trascinata dall’impopolarità dei partiti, dal
discredito delle varie caste e da una corruzione politica endemica. Basta
considerare l’affluenza al voto delle presidenziali USA, dove Obama nel 2012 è
stato eletto con poco più del 50% consensi, ovvero un pugno di voti in più del
suo avversario, a fronte di un’affluenza al voto del solo 49%. In sostanza è
diventato presidente con meno del 25% dei voti complessivi e nessuno si è
stracciato le vesti.
La garanzia di una maggiore governabilità deriva non tanto
dal doppio turno, ma dal (limitato) premio di
maggioranza alla lista invece che alla coalizione, come prevedeva il Porcellum,
che non a caso ha prodotto maggioranze tanto composite quanto litigiose e
fragili. Ben diverso è stato l’esito delle elezioni comunali nell’ultimo
ventennio, in quanto a governabilità, anche se tra doppio turno delle elezioni
locali e Italicum vi è solo un’analogia di fondo.
Nel passaggio dal primo turno al ballottaggio cambia completamente il panorama elettorale e la cornice decisionale offerta al cittadino: da una scelta multipartitica si passa ad un’opzione bipolare alternativa, aut/aut, cioè a favore dell’uno e contro l’altro contendente al II° turno (e non è detto che questa possibilità non incentivi la partecipazione al voto di indecisi e astenuti). Il superamento della maggioranza assoluta al ballottaggio attribuisce una piena legittimità democratica al vincitore, a prescindere dai consensi conquistati al primo turno; legittimazione incommensurabile rispetto allo smisurato (e illegittimo) premio di maggioranza attribuito in un unico turno dal Porcellum al partito di maggioranza relativa, di cui si è curiosamente persa memoria.
Infine la necessità di una soglia minima di voti a garanzia
della validità del voto attiene ad ogni elezione, sia a doppio turno che
singolo; il mancato raggiungimento del 50% di votanti costituisce un problema
generale e trasversale ai diversi sistemi elettorali, che testimonia la
profonda crisi della democrazia rappresentativa a prescindere dal sistema
elettorale. Il discredito di cui soffrono la politica e i partiti, testimoniato
da un astensione talvolta maggioritaria, è la causa della disaffezione al voto e non certo l’effetto
o la dimostrazione della presunta illegittimità di una legge elettorale. Lo si
potrebbe risolvere solo con l’invalidazione delle elezioni, come accade con i
referendum abrogativi che non superano il 50% di affluenza ai seggi, ma a
prezzo della ripetizione delle votazioni anche più volte, magari restando per
un bel po’ senza governo. Ma ce la vedete la democrazia USA che replica le
elezioni presidenziali perché le schede sono risultate inferiori al 50% degli
aventi diritto, magari solo per un pugno di voti?Nel passaggio dal primo turno al ballottaggio cambia completamente il panorama elettorale e la cornice decisionale offerta al cittadino: da una scelta multipartitica si passa ad un’opzione bipolare alternativa, aut/aut, cioè a favore dell’uno e contro l’altro contendente al II° turno (e non è detto che questa possibilità non incentivi la partecipazione al voto di indecisi e astenuti). Il superamento della maggioranza assoluta al ballottaggio attribuisce una piena legittimità democratica al vincitore, a prescindere dai consensi conquistati al primo turno; legittimazione incommensurabile rispetto allo smisurato (e illegittimo) premio di maggioranza attribuito in un unico turno dal Porcellum al partito di maggioranza relativa, di cui si è curiosamente persa memoria.
Eppure gli evidenti limiti dell’Italicum potrebbero essere superati con pochi
ma sostanziali ritocchi:
- l’innalzamento al 42-45% della soglia per un limitato premio di maggioranza, reso quindi ancor più ragionevole;
- la riduzione del numero dei collegi con il raddoppio dei seggi in palio, in modo da garantire un maggiore equilibrio tra capolisti bloccati ed eletti con le preferenze, specie per i piccoli partiti;
- la riduzione drastica della pluricandidature nei collegi, dalle attuali 10 a 2-3, e della soglia di sbarramento del I° turno, dal 3% al 2% per favorire la rappresentanza delle minoranze.
giovedì 26 novembre 2015
Italicum, referendum e spinte gentili
Sono passati pochi mesi dall’approvazione della nuova
elettorale, dopo quasi un decennio di discussioni e trattative, e già si pensa
a mandarla in pensione o meglio a soffocarla in culla, cioè prima che possa
muovere i primi passi e dimostrare “sul campo” la sua efficacia. Il fronte dei
fautori di una contro-riforma ancor prima che la riforma entri in vigore è
variegato: il primo tentativo di “sabotaggio” dell’Italicum è venuto dal
movimento Possibile dell’ex deputato PD Pippo Civati, ma la raccolta estiva di
firme per il referendum abrogativo non è andata a buon fine.
A distanza di un
mese riparte la campagna anti-Italicum, questa volta promossa dal Coordinamento
Democrazia Costituzionale, capitanato dal padre del rinvio alla consulta del
Porcellum, con due obiettivi: da un lato
avviare un ricorso presso una ventina di tribunali ordinarie per ottenere il
pronunciamento della Consulta, atteso nel prossimo mese di febbraio, e
dall’altro raccogliere contestualmente le firme per indire un referendum abrogativo
dei due punti cardine dell’Italicum, ovvero il premio di maggioranza e
l’elezione dei capolisti bloccati (http://www.huffingtonpost.it/2015/10/29/riforme-italicum-_n_8420112.html).
Le argomentazioni a sostegno dei ricorsi contro l'Italicum,
ovvero la paventata attribuzione della maggioranza dei seggi ad una forza
politica con consensi anche inferiori al 20% dei voti validi al primo turno,
appaiono abbastanza fragili. Prima di tutto perché nella sentenza di bocciatura
del Porcellum non viene preso in considerazione il problema degli scarsi
consensi elettorali al primo turno; al contrario in una mezza dozzina di
passaggi la Consulta ribadisce la necessità di stabilire prima di tutto una
ragionevole soglia minima per poter attribuire il premio di maggioranza, che viceversa
con il Porcellum poteva essere teoricamente assegnato anche ad un partito con
una percentuale inferiore del 20% dei consensi raggranellati nell’unico turno
di voto. In secondo luogo, in caso di mancato superamento della soglia, è
giocoforza andare al ballottaggio per la designazione maggioritaria del
vincitore, essendo solo due i contendenti rimasti in lizza indipendentemente
dalla percentuale di consensi raccolta al primo turno.
La convocazione del corpo elettorale al secondo turno di voto garantisce
una piena legittimazione democratica, testimoniata dal superamento del 50% dei
consensi espressi dai cittadini nell’urna; esattamente come avviene nelle
elezioni comunali, da una ventina d’anni, senza che nessuno se ne scandalizzi o
invochi la scure della Consulta. Anzi nel sistema elettorale a turno unico in
vigore in molte regioni e nei piccoli comuni, è la regola che una lista di
maggioranza relativa, anche di poco superiore al 20%, possa aggiudicarsi la
maggioranza degli eletti nel consiglio in una sola tornata elettorale come è
accaduto nelle recenti elezioni Liguri, senza che sia stato sollevato un
quesito di incostituzionalità.
Va da sé che il secondo turno è una votazione in piena regola, a
se stante e non una brutta copia o una replica del primo: come ha osservato il
costituzionalista Ceccanti non si possono mescolare le pere con le mele. Nel
passaggio dal primo al secondo turno cambiano le regole del gioco democratico,
la posta in palio, i parametri di valutazione dei consensi, l’offerta elettorale
e conseguentemente anche le considerazioni in base alle quali l’elettore
esprimerà la seconda opzione nell’urna: dal primo turno emerge un voto di
rappresentanza e di affinità mentre l’esito del ballottaggio esprime un mandato
a governare.
Ciò che distingue il ballottaggio rispetto al primo turno è la
diversa architettura di scelta, che rientra a ben diritto nel cosiddetto
paternalismo libertario, vale a dire il filone di studi e sperimentazioni della
cosiddetta nudge economy, finalizzati a promuove i comportamenti virtuosi dei
cittadini nelle scelte economiche e sociali che li riguardano, tramite le
cosiddette “spinte gentili”. Gli elettori dell’area politica esclusa al primo
turno vengono “spinti” a scegliere una delle tre opzioni decisionali: (a) disertare le urne del ballottaggio, (b) scegliere tra i due contendenti in base
al male minore, ovvero il partito meno
peggio, ed infine (c) votare “per ripicca” uno dei due per punire l’altro.
Le due tornate di voto non sono quindi sovrapponibili o
intercambiabili, come presuppongono i ricorrenti anti-italicum quando paventano
il rischio che un piccolo partito possa aggiudicarsi tutta la posta. Evenienza
che era invece la regola con il turno unico del Porcellum, tanto da decretarne
l’incostituzionalità per la mancanza della ribadita ragionevole soglia minima
per l’attribuzione del premio; grazie all’impostazione disproporzionale del
Porcellum le elezioni del 2013 hanno attribuito la maggioranza assoluta dei
seggi al centrosinistra pur avendo incassato un percentuale di voti poco
superiore al 25%. Ma è grazie all’imposizione della soglia minima per il premio
di maggioranza che la Consulta ha posto rimedio alla macroscopica stortura del
Porcellum.
E’ significativo che nella sentenza di bocciatura del
Porcellum non si prenda in considerazione l’argomento sollevato dai ricorrenti,
proprio perché una volta stabilità la ragionevole soglia per far scattare il
premio il rischio evocato dal Coordinamento Democrazia Costituzionale viene
superato in modo radicale con il secondo ricorso alle urne. Se mai è la
percentuale del 40% introdotta dall’Italicum per l’attribuzione del premio di
maggioranza a destare qualche perplessità in rapporto a quell’aggettivo -
ragionevole – più volte utilizzato nelle motivazioni della sentenza di
bocciatura del Porcellum per stigmatizzare l’assenza della fatidica soglia.
Peraltro già il metodo proporzionale della prima repubblica attribuiva, per il
sistema di attribuzione dei seggi sulla base dei resti, un limitato premio del
3-4% al partito di maggioranza relativa in caso di consensi vicini al 40%.
Tuttavia il “bonus” dell’Italicum, teoricamente anche vicino al 15%, potrebbe essere
considerato poco ragionevole dalla Consulta perché distorsivo della “piena
rappresentatività dell’assemblea elettiva”.
Conclusione. Nel primo turno viene espresso un voto specifico
per una comunanza di opinione/interessi tra elettore ed eletto, che nel
contempo garantisce la più ampia rappresentatività democratica dell’elettorato.
La bassa affluenza alle urne delle ultime votazioni e la mobilità
dell’elettorato dimostra che il legame di “affiliazione” o di semplice
“fidelizzazione” del cittadino verso il partito di riferimento è venuto meno, nonostante
il rinnovamento dell’offerta elettorale espresso dal sistema partitico negli
ultimi decenni. Il secondo turno invece propone una diversa cornice decisionale
ed un salto qualitativo nella posta in gioco, vale a dire la designazione di
una maggioranza di governo coesa ed univoca in virtù dell’inedito sistema
maggioritario su scala nazionale. Il salto di qualità dell’esito elettorale,
dovuto alla doppia opzione di voto, fa la differenza rispetto al Porcellum, ai
precedenti sistemi elettorali e rappresenta la vera novità dell’Italicum, che
evidentemente entra in conflitto con una molteplicità di interessi avversi a
tale prospettiva; grazie al doppio turno la nuova legge elettorale è potenzialmente
in grado di imprimere una svolta epocale al nostro sistema politico,
all’insegna di una chiara alternanza di governo, della semplificazione del
quadro politico in senso bipolare e della designazione di una stabile e solida
maggioranza di governo da parte dell’elettorato. dare al turno
di ballottaggio in cui gli elettori daranno con un secondo voto questa volta in
modo maggioritario, attribuendo ad uno dei due contendenti la vittoria assoluta
indipendentemente dalla % di consensi raccolta al primo turno, ovvero con una
piena legittimazione democratica testimoniata dal passaggio da una percentuale
anche inferiore al 20% al superamento del 50% dei voti del ballottaggio,
esattamente come avviene nelle elezioni comunali.
giovedì 29 ottobre 2015
La metamorfosi del denaro nell'era digitale
La civiltà occidentale registra da due millenni a questa
parte un lento processo di “virtualizzazione” del denaro, considerato da
filosofi analitici contemporanei, come John Searle e Maurizio Ferraris, un tipico esempio di Oggetto sociale,
ovverosia un entità fisica che incorpora in sé un’intenzionalità collettiva
relativa ad una funzione specifica, di ordine superiore rispetto all’oggetto
che la veicola, condivisa ed accettata socialmente. Per Searle il denaro svolge
la funzione socioeconomica di scambio universale, indipendentemente dalle
caratteristiche del supporto utilizzato.
Ferraris ha una posizione più radicale, in quanto mette in
dubbio che sia sempre necessario un oggetto materiale di supporto alla funzione
sociale. Per connotare un oggetto sociale è altresì indispensabile la
registrazione di atti che coinvolgono almeno due persone sotto forma di una
traccia documentale, iscritta su un supporto fisico qualunque, dalla carta al
computer, dal marmo alla memoria; un matrimonio, un contratto, un mutuo, un
passaggio di proprietà, una sentenza, un certificato etc.. per essere validi
esigono una trascrizione, e la validazione tramite una traccia, ad esempio una
firma. Come vedremo più avanti, proprio queste caratteristiche trovano una
verifica empirica nell’evoluzione in senso digitale del denaro, che fa la
differenza tra pagamento in contanti ed elettronico.
Vale la pena di ricordare le tappe di questo lungo processo
evolutivo:
- all’ inizio il conio in oro delle monete equivaleva al valore corrispettivo del metallo prezioso;
- n seguito la moneta aurea è stata affiancata o sostituita da metalli o le leghe alternative meno preziose;
- a cui si è aggiunta ben presto la cartamoneta;
- per ultimi sono stati introdotti altri supporti cartacei, dagli assegni alle cambiali, dalle azioni ai traveler’s check etc.., come sostituti simbolici di metalli e cartamonete.
Il processo di virtualizzazione ha subito un salto di
qualità ed un’ulteriore accelerazione con l’estendersi della tecnologia
digitale, destinata ad affermarsi progressivamente, fino al prevedibile e
futuro pensionamento dei contanti. La dematerializzazione arriva così alla
tappa finale con la diffusione delle forme di tracciabilità elettronica delle transazioni,
sia microeconomiche che macrofinanziarie. Paradossalmente la digitalizzazione
del denaro ha reso palesi gli scambi economici che viceversa restavano
invisibili ed opachi grazie all’uso della forma cartacea di pagamento. La
transazione economica in contanti, cioè priva del relativo documento contabile
dallo scontrino alla fattura, non lascia alcuna traccia di sé al contrario
della transazione elettronica, che invece comporta sempre l’iscrizione
dell’atto di pagamento.
Nelle transazione digitale, ovvero senza passaggio di mano
di un mezzo fisico monetario, si allarga la portata sociale dell’atto economico,
nel senso che grazie alla tracciabilità/trascrizione su un supporto fisico si
amplifica la il suo significato pubblico. Insomma il venir meno del supporto
materiale cartaceo, a favore della traccia elettronica immateriale, mette ancor
più in evidenza il carattere sociale dello scambio universale descritto da
Searle. In aggiunta l’evoluzione dal passaggio di un supporto fisico alla registrazione
elettronica del pagamento fa emergere un surplus di informazioni documentali:
permette di identificare gli attori coinvolti nella transazione, l’oggetto del
pagamento e le coordinate spazio-temporali del passaggio di moneta elettronica.
Un notevole salto qualitativo ed informativo, nel segno della trasparenza, rispetto
al carattere anonimo ed occulto del contante.
L’innalzamento del tetto dei pagamenti in contanti a 3000 Euro
ha un valore simbolico in relazione a questo contesto culturale e rappresenta
un passo indietro rispetto allo spirito dell'innovazione elettronica e
dell'economia digitale, specie in un paese a scarsa diffusione dei pagamenti
tracciabili, da tutti ritenuti un disincentivo per l'economia in nero e,
indirettamente, uno strumento di contenimento dell'evasione fiscale. Come ha
affermato il ministro Padoan la limitazione all’uso del contante “è motivata
dall’esigenza di far emergere le economie sommerse per contrastare il
riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e l’elusione
fiscale”. Per di più l’inedita
promozione del contante stride con tendenze socio-economiche in atto e con
altri provvedimenti del governo di evidente natura digitale.
In buona sostanza l’innalzamento del tetto dei pagamenti
sull’unghia contrasta con la transizione storica verso la moneta immateriale,
sopra delineata, ed assume anche i connotati di un conflitto tra economia
“oscurantista”, occulta, opaca e accuratamente celata (pagamenti in contanti
senza ricevuta, fondi e provviste in nero per corruzione, evasione fiscale e
contributiva, truffe, traffici illegali e criminali, usura etc..) e pratiche
“illuministiche” di trasparenza, digitalizzazione, tracciabilità,
accountability, visibilità ed emersione delle transazioni economiche. Insomma
l’inedita promozione dei contanti è un passo indietro rispetto al tentativo di
introdurre elementi di modernità, in una società ancora intrisa di un passato
arcaico e pre-moderno.
venerdì 23 ottobre 2015
Sull'innalzamento del tetto per i pagamenti in contanti...
Innalzare i pagamenti in
contanti a 3000 euro è in primis un errore sul piano culturale, simbolico e un passo
indietro per chi si propone di promuovere la cultura dell'innovazione elettronica, la diffusione di
internet, le start-up telematiche, la modernizzazione dell'economia e la
digitalizzazione della PA etc..., specie in un paese arretrato nella diffusione
dei pagamenti elettronici, che tutti sanno essere un disincentivo per
l'economia sommersa e indirettamente un mezzo per il contenimento dell'evasione
fiscale. Insomma una misura vecchia, antistorica, che sa di un mondo arcaico,
fermo al passato, poco disposto alle novità, diffidente verso il cambiamento e
l'innovazione tecnologica, con i soldi nel materasso, sotto le mattonelle e la
paura nel futuro. Ma vediamo di capire in modo schematico perché l’inedita
promozione del contante stride con varie tendenze socio-economiche in atto e
con altri provvedimenti del governo.
- Un anno fa circa veniva introdotto l’obbligo del POS per i lavori autonomi e del pagamento elettronico obbligatorio per importi superiori ai 30 E, non senza polemiche da parte delle associazioni di categoria e peraltro senza la previsione di sanzioni per la mancata attivazione dei dispositivi elettronici di pagamento;
- la diffusione e l’incentivazione delle forme di pagamento elettronico e quindi tracciabile - tramite bancomat, carta di credito, bonifico, assegno, carte prepagate a scalare, voucher, POS mobili, APP dedicate etc.. – e di limitazione all’uso del contante “è motivata dall’esigenza di far emergere le economie sommerse per contrastare il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e l’elusione fiscale” (Padoan 2014), senza quindi la necessità di strumenti di controllo come scontrini e ricevute, con il relativo apparato di guardie di finanza alle porte dei negozi; va da se che il pagamento con POS, assegno o carta di credito rende superflua l’emissione dello scontrino o della fattura e quindi anche la sua omissione colpevole;
- l’economia digitale è coerente e da sempre allineata con il principio della tracciabilità elettronica dei pagamenti, dall’e-commerce ai sistemi NFC, dai pagamenti on-line con carte prepagate all’home banking, per non parlare della nascita e diffusione della moneta elettronica, il cosiddetto bit-coin;
- nella PA, e in particolare a livello della rappresentanza istituzionale, è in atto un faticoso processo di promozione della trasparenza delle spese effettuate, prioritariamente con l’obbligo di rendicontazione puntuale e di esibizione elettronica dei pagamenti effettuati tramite carte di credito da sindaci, presidenti di regione, consiglieri regionali e comunali, al fine di prevenire distrazioni di fondi, peculato, uso personale del denaro pubblico;
- sempre nella PA, per un maggiore controllo delle spese, è stata introdotta nel 2015 alla fatturazione elettronica dei fornitori nell’ambito di una generale incentivazione della digitalizzazione delle procedure economico-finanziarie, ad esempio degli incentivi fiscali per le ristrutturazioni e il risparmio energetico, dei bonus individuali tramite carte pre-pagate, la dematerializzazione delle prescrizioni mediche etc..;
- Da ultimo, se per combattere l'evasione non servono tanto i controlli fiscali sui consumi spiccioli ma bensì quelli incrociati e preventivi sui dati elettronici - come il 730 precompilato, enfatizzato in TV dal presidente del Consiglio - che effetto avrà l'innalzamento del tetto dei contanti se non di ridurre gli strumenti a disposizione dell'Ag. delle entrate per fare riscontri di dati elettronici, ad esempio sui consumi di beni di lusso come indicatore di reddito/evasione?
Ancor più in radicalmente il processo millenario di
“virtualizzazione” della moneta - in quanto oggetto sociale per eccellenza - arriva
a compimento proprio con la diffusione delle forme di tracciabilità digitale ed
elettronica delle transazioni, sia spicciole e quotidiane che di grandi
dimensioni. Vale la pena di ricordare le precedenti tappe di un processo
evolutivo iniziato con il conio in oro delle monete, seguito dall’uso di
metalli o le leghe alternative meno preziose e successivamente con la
diffusione della cartamoneta, per giungere al compimento finale: la storica
decisione di annullare la convertibilità del dollaro in oro, decretata
all’inizio degli anni settanta dall’amministrazione americana. Un processo in
atto da millenni che ha subito un salto di qualità ed un’accelerazione con la
tecnologia digitale e che è destinato ad affermarsi ulteriormente, fino al
definitivo pensionamento dei contanti. E non sarà certo una misura antistorica,
o un voto di fiducia sull’innalzamento dei pagamenti in contanti nell’anno di
grazia del 2016, ad arrestarlo…..
sabato 17 ottobre 2015
Ecco che s'avanza l'armata Brancaleone anti Italicum....
E’ ben strana la politica nostrana. Sono passati pochi mesi
dall’approvazione della legge elettorale, dopo quasi un decennio di estenuante
tira e molla, e già si pensa a mandarla in pensione o meglio a soffocarla in
culla, prima che possa muovere i primi passi e crescere robusta dimostrando
pure di saperci fare da grande. Una nuova armata Brancaleone si vorrebbe
disfare di una legge non ancora entrate in vigore e ben lontana dall’essere
applicate concretamente pur di difendere rendite di posizione, gruppetti di
potere clientelari e micropartitini portatori di interessi particolari. In
prima fila troviamo i centristi, affiancati da forzitalioti sparsi, e
spalleggiati indirettamente dall’estrema sinistra litigiosa e minoritaria,
incapace di trovare quello zoccolo duro di consensi per varare il relativo
referendum abrogativo civatiano. Ognuno ha i suoi motivi ed obiettivi per
militare nell’esercito anti Italicum, ma proprio questo è il bello delle armate
Brancaleone!
Anche autorevoli commentatori, come Stefano Folli su la Repubblica, si esercitano al gioco di società “rivediamo l’Italicum” prima che possa dimostrare con i fatti di essere una buona legge a garanzia di una salda governabilità, sana alternanza e rappresentatività democratica. Dopo un contorto groviglio di argomentazioni ipotetiche, a partire da una presunta legge “sbagliata”, il fine analista avanza l’originale proposta di un doppio turno di collegio alla francese, quell’uninominale caro all’ex minoranza (civatiana) della minoranze PD; peccato che sulla base di varie simulazione, in presenza di un assetto politico ormai saldamente tripolare, questo modello rischierebbe di far saltare il sistema dalla padella del Porcellum alla brace dell’ingovernabilità, complice un disomogenea rappresentanza territoriale, a macchia di Leopardo, dei deputati afferenti a tre schieramenti. Per giunta ci si è messo pure l'ex presidente della repubblica a dare manforte ai congiurati con una frase sibillina pronunciata durante le dichiarazioni di voto al Senato sulla riforma istituzionale, subito sposata dai centristi.
Anche autorevoli commentatori, come Stefano Folli su la Repubblica, si esercitano al gioco di società “rivediamo l’Italicum” prima che possa dimostrare con i fatti di essere una buona legge a garanzia di una salda governabilità, sana alternanza e rappresentatività democratica. Dopo un contorto groviglio di argomentazioni ipotetiche, a partire da una presunta legge “sbagliata”, il fine analista avanza l’originale proposta di un doppio turno di collegio alla francese, quell’uninominale caro all’ex minoranza (civatiana) della minoranze PD; peccato che sulla base di varie simulazione, in presenza di un assetto politico ormai saldamente tripolare, questo modello rischierebbe di far saltare il sistema dalla padella del Porcellum alla brace dell’ingovernabilità, complice un disomogenea rappresentanza territoriale, a macchia di Leopardo, dei deputati afferenti a tre schieramenti. Per giunta ci si è messo pure l'ex presidente della repubblica a dare manforte ai congiurati con una frase sibillina pronunciata durante le dichiarazioni di voto al Senato sulla riforma istituzionale, subito sposata dai centristi.
Sono mesi che questi ultimi brigano in tutti i modi, con il condizionamento
dei loro voti indispensabili far passare leggi importanti come unioni civili e
allungamento della prescrizione, pur di raggiungere uno storico obiettivo:
riformare subito l'Italicum con la reintroduzione del premio alla coalizione,
invece che al partito, prima della sua entrare in vigore e della sua verifica
alle prossime elezioni, magari a riprova che con l’Italicum è possibile un'alternanza
elettorale secca, un esecutivo scelto dagli elettori, forte ed omogeneo, libero
dai ricatti del partitino di turno che con il 4% dei voti fa il bello e il cattivo
tempo mettendo i bastoni tra le ruote alle leggi che non gli aggradano. Guai se
l'Italicum dovesse dimostrare invece che l'era dei vari Ghini di Tacco è
definitivamente tramontata e che gli elettori, grazie al doppio voto, hanno in
mano lo strumento per designare in modo chiaro e netto un vincitore ed uno
sconfitto, senza più giri di valzer, maggioranze raccogliticce e litigiose, trasmigrazioni
e compravendita di eletti, transumanze parlamentari, cambi ossessivi di casacca,
riedizioni di manuali Cencelli, consociativismi di vario genere, ovvero il
peggio della seconda repubblica gentilmente offerto dal Porcellum e dal
Mattarellum! Non fia mai che possa decidere la gente una coesa maggioranza di
governo, muoia l'Italicum sul nascere con tutti i Filistei!
Con le dimissioni del coordinatore nazionale NCD Quagliariello e
la probabile creazione dell’ennesimo gruppetto parlamentare al Senato il
disegno si fa più chiaro: andare ad un appoggio esterno e negoziato su tutto al
governo, sfruttare al massimo i pochi voti indispensabili alla
maggioranza governativa del Senato per ottenere la reintroduzione del premio di
coalizione dell'Italicum, ricompattando nel contempo il fronte cattolico più
moderato ed ostile alle unioni Civili, magari condizionando anche
l’iter della riforma costituzionale. venerdì 18 settembre 2015
Sulla gestione dello show funebre romano...
La gestione della cerimonia funebre del capoclan Casamonica si è svolta all'insegna della "normalita'". Tutti nel quartiere erano a conoscenza del funerale ma nessuno ha pensato di informare preventivamente i livelli superiori, perché evidentemente era ritenuto un fatto ordinario e non eccezionale, a parte i riflessi sulla viabilità, quella si avvertita come un "problema" rilevante tanto da mobilitare i vigili del quartiere. La cosa buffa sta nel fatto che neppure a cose fatte è stata valutata l'anomalia di quanto era accaduto il mattino, tant'è che la questura è venuta a conoscenza dello show funebre solo nel pomeriggio, dai media e non dal rapporto redatto da Carabinieri o Polizia.
Insomma i Casamonica rientrano nella "fisiologia" antropo-sociale della periferia romana, e sono al massimo rubricati come un episodio di kitch folcloristico. Comunque anche se avessero informato per tempo questura o prefettura, le autorità superiori al massimo avrebbero potuto declassare il funerale da solenne a normale, ammesso e non concesso che anche i superiori potessero prevedere il carro funebre trainato dai cavalli, la fanfare funebre, l'elicottero, il lancio di petali e i manifesti inneggianti all'estino appesi alla porta della chiesa... Insomma, tutto normale, fisiologico, ordinario.
Come possono quindi essere ritenuti responsabili questore, prefetto, sindaco e su su fino al ministro se nessuno è venuto a conoscenza dell'evento prima della sua celebrazione e pure a cose fatte? D'altra parte, a quanto pare, nessun componente della vasta famiglia allargata del tuscolano non ha mai subito condanne per il 41 bis, il che giustifica il fatto che non vengano percepiti come un’organizzazione mafiosa con il conseguente allarme sociale e pregiudizio per l'ordine pubblico.
L'episodio segnala che la questione non riguarda tanto i vertici, ma prima di tutto la base della piramide gerarchica, complice probabilmente la riduzione dei ranghi per via del periodo ferragostano: per gli schemi percettivo-valutativi dei CC, della polizia e dei vigili urbani, evidentemente assuefatti al tran tran illegale e "folcloristico" dei Casamonica, il clan non rappresenta una devianza sociale, tale da superare la soglia di attenzione e di allerta dell'apparato "percettivo" della sicurezza pubblica. Evidentemente per il filtro informativo delle forze dell'ordine il funerale non costituiva un fattore di rischio sia prima sia dopo, per via dell’imprevisto impatto mediatico della plateale sceneggiata di "potere" e prestigio sociale del clan.
Non è tanto una questione di flussi informativi inceppati o poco efficaci tra la base e il vertice, come vuol accreditare la relazione del prefetto Gabrielli sui fatti del tuscolano; è invece una questione di interpretazione e di valutazione di fatti ed eventi sociali, un po' come quando si avvertono dei disturbi fisici ma si non li reputa di gravità tale da essere portati all'attenzione del proprio medico.
Ma, a ben vedere, almeno un attore dello show funebre aveva una conoscenza preventiva della vicenda e poteva forse arginare gli effetti mediatici dello show, ovvero il parroco della chiesa in cui si è svolta la cerimonia che aveva due opzioni: negare le esequie pubbliche, come si negano i sacramenti ad un mafioso scomunicato, o in alternativa suggerire una celebrazione in tono minore, come accade nei paesi del sud alla morte del boss mafioso, seppellito dopo una cerimonia privata, alle prime luci dell'alba nel cimitero locale. Eppure non viene segnalata alcuna indagine sul comportamento del religioso, che evidentemente viene ritenuta a priori corretta ed esente da critiche.
Insomma i Casamonica rientrano nella "fisiologia" antropo-sociale della periferia romana, e sono al massimo rubricati come un episodio di kitch folcloristico. Comunque anche se avessero informato per tempo questura o prefettura, le autorità superiori al massimo avrebbero potuto declassare il funerale da solenne a normale, ammesso e non concesso che anche i superiori potessero prevedere il carro funebre trainato dai cavalli, la fanfare funebre, l'elicottero, il lancio di petali e i manifesti inneggianti all'estino appesi alla porta della chiesa... Insomma, tutto normale, fisiologico, ordinario.
Come possono quindi essere ritenuti responsabili questore, prefetto, sindaco e su su fino al ministro se nessuno è venuto a conoscenza dell'evento prima della sua celebrazione e pure a cose fatte? D'altra parte, a quanto pare, nessun componente della vasta famiglia allargata del tuscolano non ha mai subito condanne per il 41 bis, il che giustifica il fatto che non vengano percepiti come un’organizzazione mafiosa con il conseguente allarme sociale e pregiudizio per l'ordine pubblico.
L'episodio segnala che la questione non riguarda tanto i vertici, ma prima di tutto la base della piramide gerarchica, complice probabilmente la riduzione dei ranghi per via del periodo ferragostano: per gli schemi percettivo-valutativi dei CC, della polizia e dei vigili urbani, evidentemente assuefatti al tran tran illegale e "folcloristico" dei Casamonica, il clan non rappresenta una devianza sociale, tale da superare la soglia di attenzione e di allerta dell'apparato "percettivo" della sicurezza pubblica. Evidentemente per il filtro informativo delle forze dell'ordine il funerale non costituiva un fattore di rischio sia prima sia dopo, per via dell’imprevisto impatto mediatico della plateale sceneggiata di "potere" e prestigio sociale del clan.
Non è tanto una questione di flussi informativi inceppati o poco efficaci tra la base e il vertice, come vuol accreditare la relazione del prefetto Gabrielli sui fatti del tuscolano; è invece una questione di interpretazione e di valutazione di fatti ed eventi sociali, un po' come quando si avvertono dei disturbi fisici ma si non li reputa di gravità tale da essere portati all'attenzione del proprio medico.
Ma, a ben vedere, almeno un attore dello show funebre aveva una conoscenza preventiva della vicenda e poteva forse arginare gli effetti mediatici dello show, ovvero il parroco della chiesa in cui si è svolta la cerimonia che aveva due opzioni: negare le esequie pubbliche, come si negano i sacramenti ad un mafioso scomunicato, o in alternativa suggerire una celebrazione in tono minore, come accade nei paesi del sud alla morte del boss mafioso, seppellito dopo una cerimonia privata, alle prime luci dell'alba nel cimitero locale. Eppure non viene segnalata alcuna indagine sul comportamento del religioso, che evidentemente viene ritenuta a priori corretta ed esente da critiche.
domenica 21 giugno 2015
Italicum sotto attacco dopo le elezioni regionali
A poche ore dalla pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale si è scatenato il prevedibile tiro al bersaglio contro
l’Italicum, accusato di spirito anti-democratico e di essere sostanzialmente
l’anticamera della prossima dittatura.
Dopo l’esito delle elezioni regionali di fine maggio sono riprese le
ostilità contro la nuova legge elettorale, con la strana convergenza delle due
ali estreme della composita maggioranza di governo: da un lato la sinistra PD
e, dall’altro, i centristi di NCD, accomunati dall’idiosincrasia per le novità
e i tratti più innovativi del neonato sistema elettorale. La nuova Santa
Alleanza trasversale anti-Italicum si propone di modificare la legge, a colpi
di referendum o dopo un lifting parlamentare, a prescindere dalla verifica dei
suoi effetti sugli assetti politico-istituzionali.
Il primo ad aprire le ostilità è
stato l’ex leader della minoranza PD Pippo Civati, che subito dopo le
dimissioni dal PD ha annunciato il proposito di raccogliere le firme per due
referendum abrogativi dei punti qualificanti della neonata legge elettorale.
Gli articoli da cassare secondo Civati sono quelli relativi a capilista bloccati, pluricandidature e doppio
doppio turno per il premio di maggioranza. Tutto ciò prima ancora che sia stata
applicata per la prima volta la nuova elegge e dopo che il sistema elettore a doppio turno dei comuni ha dimostrato di
funzionare garantendo chiarezza di esito elettorale, governabilità ed
alternanza amministrativa.
La
crociata anti-Italicum sembrerebbe condannata in partenza all'insignificanza
politica e al probabile fallimento del referendum per un quorum da tutti
giudicato irraggiungibile, visto il livello di astensionismo alle elezioni
Europee del 2014, trend confermato in peggio alle regionali. Difficile immaginare
una consistente affluenza al voto per un referendum pro-preferenze, dopo che
negli anni novanta con una consultazione referendaria di opposto tenore erano
state cancellate a furor di popolo, perché ritenute espressione della peggiore
politica clientelare, affaristica e inquinata dalle logiche spartitorie della
partitocrazia.
Il
giudizio su una nuova legge si può dare solo verificando quali sono i suoi
effetti empirici, possibilmente comparati con quelli della precedente versione.
Un possibile raffronto viene dalle elezioni regionali; i contestatori a priori
dell'Italicum non dicono nulla sul poco edificante spettacolo della miriade di
liste regionali coalizzate, in cui hanno trovano posto i famosi impresentabili
in virtù di un sistema elettorale che premia le aggregazioni ed attribuisce un
premio di maggioranza illimitato, analogo a quello del Porcellum bocciato dalla
sentenza della Consulta. Quelli regionali si sono rivelati sistemi elettorali
decisamente peggiori dell'Italicum, che perlomeno ha messo in soffitta il
premio alle coalizioni e introdotto la soglia minima per il premio di stesso.
La querelle degli impresentabili ha dimostrato che il brodo
di coltura della degenerazione politica è il combinato disposto tra preferenze
e premio alla coalizione, composta da numero a
piacere di liste pur di conseguire quel vantaggio di consensi indispensabile
per agguantare il premio di maggioranza. Esiste infatti una sinergia “naturale”
tra le due formule: da un lato la notorietà del capolista e dei notabili locali convoglia sulla lista voti
“personalistici”, che non sarebbero arrivati per altre motivazioni, attratti
dalle preferenze mentre dall’altro il capolista forte del potenziale consenso
ad personam per il radicamento sociale dei suoi esponenti può trattare con il
candidato governatore da posizioni di forza facendo leva sul suo piccolo ma
indispensabile pacchetto di consensi.
Fortunatamente l'Italicum con la
presenza dei capolisti bloccati e soprattutto grazie al premio alla lista e non
alla coalizione ha introdotto un disincentivo a questo modello di gestione
strategica del consenso politico-elettorale, che non uguali nel resto del
continente. Non a caso, all’indomani delle elezioni regionali, i centristi di
NCD per bocca del portavoce Quagliariello hanno avanzato la proposta di
rivedere l'Italicum introducendo la possibilità di apparentamento al secondo
turno. Con questa modifica il piccolo partito potrebbe negoziare il proprio
sostegno ad uno contendenti al II° turno facendo pesare il proprio contributo determinante
di voti, per ottenere in cambio posti di potere e altri vantaggi, a mo’ di
novello Ghino di Tacco.
Dopo la sentenza della Consulta
sul Porcellum e il varo dell'Italicum sembra arrivato il momento di rivedere anche le leggi elettorali
regionali, per armonizzare i vari sistemi elettorali
vigenti a livello nazionale e locale. Che senso ha un sistema a doppio turno
con soglia per il premio di maggioranza, come quello toscano, accanto ad altri
senza soglia e con premio praticamente illimitato come quello vigente nella
vicina Liguria, dove il neogovernatore Toti governerà la regione con poco più
di un 1/3 dei voti e una maggioranza risicatissima? La revisione del sistema di
voto toscano rappresenta certamente un passo in avanti poiché, introducendo la
soglia minima del 40% per il premio di maggioranza, ha di fatto aperto la
strada all’Italicum. Tuttavia a livello regionale sarebbe più appropriata una
soglia per il premio al 45%, cioè una via di mezzo tra il 40% della legge
nazionale e il 50% delle comunali.
Ma soprattutto urge
l’eliminazione del premio alla coalizione, vero cavallo di Troia per
impresentabili, clientelismo, campanilismo e, in associazione con le
preferenze, strumento di personalizzazione della politica e rischio di voto di
scambio. Non a caso in Campania alcuni impresentabili sono stati eletti
sull'onda delle preferenze. Al contrario l’esito delle recenti elezioni
comunali ha dimostrato per l’ennesima volta quanto il doppio turno possa
scompaginare equilibri consolidati, far emergere nuovi protagonismi, garantire
il ricambio amministrativo e la chiarezza dell’esito elettorale. I casi di
Venezia ed Arezzo sono emblematici della dinamicità della seconda chance
elettorale per rimettere in moto la dialettica elettorale ed offrire ai cittadini
concrete occasioni di cambiamento.
lunedì 8 giugno 2015
Lo strano caso delle elezioni regionali in Liguria....
Il dibattito
sui risultati delle regionali è stato monopolizzato dalla perdita di 2 milioni e
passa di voti del PD rispetto alle Europee, che ha tenuto banco nei commenti
dei primi giorni [1]; questo dato è stato però ridimensionato mano a mano che sono
entrati nel computo dei consensi persi due variabili del contesto elettorale
trascurate da molti commentatori, in modo un po’ superficiale.
1-Prima di
tutto l’astensione, che ha colpito in modo abbastanza trasversale tutti i
partiti e che riduce di molto il numero di voti persi, specie dal PD, nel
computo a livello nazionale, ma anche nelle varie regioni (l’istituto Cattaneo
calcola che in Liguria la perdita dei consensi, rispetto alle Europee del 2014,
si riduca dal 47% al 12%) [2,3].
2-Sia a
livello locale che nazionale hanno avuto un consistente impatto le liste
coalizzate, specie quelle del candidato presidente presenti un po’ in tutte le
regioni, che evidentemente possono essere ricomprese tra i voti da attribuire
al partito del candidato premier (nel caso del PD) o dello schieramento
complessivo di centrodestra o centrosinistra. Il PD si manterrebbe quindi a
debita distanza dalle percentuali della Ditta bersaniana del 2013: il prof.
Vassallo calcola che il PD sia passato dal 40.8% delle Europee al 37% circa
nelle 7 regioni, per una riduzione del 10% circa dei suoi consensi, che
confermerebbe il dato dell’istituto Cattaneo. [4]
3-Per il
combinato disposto delle due precedenti variabili si ridimensiona assai la
“batosta” subita dal PD e così pure il successo del M5S, mentre a destra brilla
ancor di più l’exploit della Lega, l’unico partito che guadagna in percentuale
(con incrementi superiori anche al 100% come in Toscana) e in voti assoluti su
tutte le precedenti elezioni, in gran parte a prezzo del tracollo di FI.[5]
4-Questa conclusione
farà certamente piacere ai sostenitori del premier, che tuttavia pagano dazio a
livello del risultato Ligure, interpretato in modo meccanico come effetto del
“tradimento” della "sinistra masochista" del civatiano Pastorino. In
realtà, in base all’analisi dei flussi, la lista Pastorino avrebbe attirato
dalla riserva elettorale del PD solo una metà dei consensi rastrellati in
Liguria, mentre l’altra metà del 9.4% incassato sarebbe riconducibile allo
zoccolo duro della sinistra radicale, come quella confluita alle europee del
2014 nella lista Tsipras. In sostanza quindi anche senza la lista Pastorino la
Paita avrebbe avuto poche possibilità di annullare la differenza di consensi
che l’hanno separata da Toti, con buona pace del giglio magico ligure, da un
lato, e delle ambizioni della lista Pastorino, dall’altro [6,7].
5-Qualche
altra considerazioni sul voto Ligure. Sul flop del gruppo dirigente del PD
Ligure hanno pesato in ordine di importanza:
- i 10 anni del sistema di potere Burlando, incapace di risolvere il problema prioritario della regione, ovvero le inondazioni dovute all’annoso dissesto idrogeologico: non a caso il PD incassa a Genova il peggiore risultato di tutta la regione e un surplus di defezione astensionistica di protesta su scala regionale, in un’area storicamente oscillante tra destra e sinistra;
- la non esaltante vicenda delle primarie, che hanno gettato un'ombra sulla candidata vincente e che dovevano essere gestite in modo più accorto e condiviso se non annullate in un sussulto di etica pubblica.
Giustamente
Paolo Mieli in TV ha fatto notare a Cofferati che con l’intento di contrastare
il presunto patto del Nazareno al pesto - ovvero la paventata combine tra
esponenti di centrodestra e PD in appoggio alla Paita - l’ex sindacalista ha
finito per danneggiare solo la candidata burlandiana, pur senza essere
determinante in negativo per la vittoria di Toti, grazie al sostegno dato alla
lista Pastorino dopo l’uscita dal partito a seguito delle primarie. D’altra
parte l’ipotesi di un super Nazareno all’ombra della Lanterna, tra buraldiani e
scajoliani per spartirsi il governo regionale, se mai fosse stata architettata
è stata smentita dai fatti, visto che non vi è stato il paventato soccorso
elettorale di centrodestra alla Paita, ma bensì il pieno di voti per Toti
governatore. Così i civatiani pur non essendo stati “quantitativamente”
determinati per la vittoria del centrodestra, come vorrebbe far credere la
narrazione renziana del “tradimento”, hanno incassato comunque l’effetto
“qualitativo” di indebolire la candidata del PD, per un’ “eterogenesi dei fini”
forse attesa.
E se invece il soccorso "nero" delle primarie alla Paita fosse stata una trappola ben congegnata per estremizzare lo scontro nel PD, fino alla rottura intestina e alla presentazione di una lista di ispirazione radicale, per indebolire il PD a tutto vantaggio del candidato di centrodestra?
E se invece il soccorso "nero" delle primarie alla Paita fosse stata una trappola ben congegnata per estremizzare lo scontro nel PD, fino alla rottura intestina e alla presentazione di una lista di ispirazione radicale, per indebolire il PD a tutto vantaggio del candidato di centrodestra?
La
strategia elettorale appropriata, per arginare le defezioni degli elettori PD
scontenti e tentare la riconferma del centrosinistra, era esattamente opposta a
quella attuata dal gruppo dirigente Ligure, ovvero:
- rompere con la precedente gestione, candidando un personaggio della società civile, tipo un Doria o un Pisapia, invece che un esponente organico come la Paita, in piena continuità con l'amministrazione precedente e il gruppo di potere egemone;
- su questo nome compattare tutte le anime/tribù del partito e magari andare oltre il PD per recuperare la fiducia dell’elettorato tradizionalmente vicino al centrosinistra che invece, al dunque, ha disertato la cabina elettorale per protesta.
Per
attuare questa strategia era però necessario un passo indietro del vecchio
gruppo dirigente e l’avio di una pacificazione tra le varie anime del PD. Operazione
evidentemente troppo rischiosa per uomini ininterrottamente al potere da
decenni, che pensavano di recuperare un’immagine di rinnovamento proponendo la
giovane candidata, in barba alla rottamazione. In fin dei conti bastava
ispirarsi all'operazione Veneziana, intelligentemente messa in campo per le sue
buone probabilità di successo.
6-Il buffo è
che proprio nel mentre si consumava la faida ligure, nell’altra repubblica
marinara chiamata al voto al civatiano Casson capitava di vincere le primarie e
di incassare quasi il 40% al primo turno delle comunali lagunari, proprio
grazie all'appoggio dello sconfitto renziano alle primarie e al contenimento
unitario dei danni della scandalo Mose. Perché
dunque a Venezia i due contendenti vanno d'amore e d'accordo e lo sconfitto
sostiene il candidato ufficiale (come peraltro aveva fatto lealmente il Renzi
perdente alle primarie vinte da Bersani) mentre a Genova il Cofferati sconfitto
se ne va dal PD, portandosi via la palla? Nelle due repubbliche marinare sono andate in scena due varianti dello stesso copione, ma con parti in commedia invertite, regie ed esiti opposti: le baruffe sotto la lanterna hanno incassato un clamoroso fiasco per platee mezze vuote, mentre il copione veneziano ha avuto un buon successo di pubblico alla prima e, forse, ne avrà uno ancor maggiore alla replica di domenica 14 giugno.
CONCLUSIONI. Insomma, per
produrre un disastro politico come quello ligure, all’insegna del tanto peggio
tanto meglio invece che del meno peggio, bisognava che entrambi i protagonisti
si mettessero di buzzo buono e con grande impegno, l’un contro l’altro armati
di tutto punto. Pare proprio che vi siano sono riusciti, e alla grande! Come
definire, se non follia a due con spunti paranoidi, la faida ligure tra tribù
renziane e anti-renziane, in cui ognuno dei due contendenti ha un disperato
bisogno dell'altro per realizzare l'ennesima debacle autodistruttiva della
sinistra nel suo complesso?
1.
http://www.cattaneo.org/images/comunicati_stampa/Analisi_Istituto_Cattaneo_-_Regionali_2015_-_Chi_ha_vinto_chi_ha_perso_e_dove_1_giugno_2015.pdf
5. http://cise.luiss.it/cise/2015/06/02/regionali-2015-grillo-resta-secondo-partito-lega-prima-nel-centrodestra/
7.
http://www.gadlerner.it/2015/06/02/listituto-cattaneo-e-genova-smentiscono-le-giustificazioni-renziane-sul-voto-ligure
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